1° corso di formazione del Centro di aiuto alla Vita di Santa Venerina: 38 anni di testimonianza e impegno del Movimento per la Vita italiano

0
85

Pubblichiamo la prima lezione del primo corso del Centro di aiuto alla Vita di Santa Venerina, tenuta da Cesare Scuderi, tenuta il 14 febbraio 2013.

Non posso parlare del Movimento per la Vita e dei Centri di Aiuto alla Vita se prima  non ci chiariamo le idee su quando inizia la vita.
Una cosa è certissima. E’ una evidenza che non ha bisogno di dimostrazioni né di particolari conoscenze scientifiche:  nessuno di noi, io che vi parlo, voi che ascoltate, ci sarebbe se nostro padre e nostra madre non si fossero incontrati sessualmente.
Questo miracolo inizia come ci mostra questa immagine che state vedendo. Da lì, dall’incontro dello spermatozoo con l’ovulo inizia la vita, con un percorso di crescita che porta alla nascita. Con uno sviluppo continuo, autonomo, finalisticamente orientato.
Se oggi noi siamo qui è perché niente e nessuno ha interrotto questo processo di crescita. [Le attuali tecniche ecografiche consentono di vedere e fotografare l’embrione e addirittura di renderlo vero e proprio attore di filmati realizzati mediante fibre ottiche].
Questa premessa era necessaria perché noi uomini e donne comuni, che non siamo scienziati, dobbiamo avere una convinzione se dobbiamo decidere personalmente se sia giusto chiedere o attuare un intervento abortivo, oppure se è eticamente corretto ricorrere alla procreazione artificiale. Perché ci dobbiamo porre la domanda: la mia azione incide su un essere umano oppure no?
Le pratiche abortive sono presenti presso tutti i popoli e in tutte le epoche storiche. Tuttavia il sentire etico e la coscienza medica nei secoli passati hanno chiaramente avvertito il carattere di “male” insito nell’aborto. Ne fa fede il “Giuramento di Ippocrate”, laddove dice <non darò a una donna un pessario abortivo>.
Questo giudizio negativo ha attraversato un po’ tutta la tradizione occidentale. Ai nostri giorni un forte movimento di opinione induce ad una profonda revisione culturale di tali acquisizioni che si esprime nel duplice orizzonte della depenalizzazione e della legittimazione.
– La depenalizzazione consiste essenzialmente nel non considerare più reato ( a determinate condizioni) l’aborto volontario e, come tale, non più legalmente perseguibile né da parte di chi lo esegue, né da parte di chi vi ricorre.
– La legittimazione va oltre e chiede che l’aborto volontario sia ritenuto vero e proprio diritto civile e, in modo particolare, un diritto della donna.
La stessa terminologia impiegata (interruzione della gravidanza) pone l’accento su un evento della donna.
Il figlio (embrione, feto o semplice “prodotto del concepimento”) passa in secondo piano.
Ma una volta identificata la natura umana dell’embrione, fin dal concepimento, non si può non ammetterne il diritto alla vita per tutto l’arco della sua esistenza.
Eppure si introduce un criterio di precarietà esistenziale che fa dipendere il mantenimento in vita di un essere umano da condizioni esterno ad esso e giudicato da un altro uomo che ne consente l’esistenza.
Basti pensare all’assoluto arbitrio della legge italiana che fissa nei 90 giorni l’epoca entro cui si può praticare. Cosa succede al 91°giorno?  In virtù di cosa per un solo giorno l’embrione acquisisce ope legis una intangibilità assoluta?
Anche questa, poi, non sarebbe assoluta perché in caso di malformazione la perderebbe di nuovo.
Quindi di fronte all’intangibilità di principio della vita abbastanza condiviso siamo di fatto di fronte a una violenza sulla vita, una affermazione del potere di vita e di morte su un altro essere umano.
L’accettazione dell’aborto < validamente motivato >, significa far si che l’uomo non nasce libero ma condizionato dall’altrui volontà.
Inoltre ciò che è “valido” per una persona può non esserlo per un’altra e viceversa.
E se una valida motivazione esiste per la vita intrauterina perché non prenderla in considerazione per quella già nata? E per questo che spesso viene detto, e non a torto, che l’aborto costituisce, in un certo senso, la matrice di ogni altro attentato alla vita umana.
Ma quello che sconcerta dell’aborto è che si tratta di un atto contro la vita paradossalmente eseguito da chi è preposto a sua tutela. La madre, la medicina, la legge.
La madre innanzi tutto, che compie un atto “contro natura”. Oltre alla singola madre è infatti la natura stessa della maternità ad essere frustrata, una maternità che l’istinto animale difende assai più di quanto sia in grado di fare la razionalità umana. In questa luce l’aborto costituisce il primo dei “tradimenti” che possa subire un essere umano, iltradimento di una fiducia primordiale, inespressa, di un essere totalmente dipendente da un altro, addirittura fisicamente legato e incorporato ad esso.
Poi la medicina. Non solo il medico, ma la medicina nel suo insieme, cioè la scienza medica dedita non più a promuovere la vita, ma a provocare la morte. Attraverso, s’intende, gli operatori sanitari. E qui il discorso diventa particolarmente delicato. Innanzi tutto perché, per la prima volta nella storia, ci troviamo di fronte ad un atto che contravviene la tradizione etica medica tramandata dal “Giuramento di Ippocrate” e refluita nei codici di deontologia professionale, dall’altro perché trasforma il professionista prezzolato e poco cosciente di alcuni anni fa in un rispettabile operatore che con scrupolo esegue un lavoro equiparabile a qualsiasi altro compito sanitario.
Infine la legge. Quella stessa legge il cui fine ultimo è il  < bene comune e la difesa del più debole>.
Ma come sono nati i Centri di Aiuto alla Vita e perché?
Fu nel marzo del 1975, 38 anni or sono, che all’interno del Consiglio pastorale diocesano di Firenze nacque l’idea di costituire un Centro di aiuto alla Vita. In risposta a quello che stava succedendo in città.
Il 9 gennaio precedente la magistratura era intervenuta bloccando l’esecuzione sistematica e clandestina di aborti che da qualche tempo si praticavano a Firenze in via Dante da Castiglione. L’organizzazione che reclutava le donne in tutta Italia, le conduceva a Firenze e gestiva la clinica era il “CISA” (centro italiano sterilizzazione e aborto) di Adele Faccio, Emma Bonino e Gianfranco Spadaccia.                                        La targa sul cancello d’accesso alla villa diceva: “Partito Radicale Italiano”.             Questa vicenda giudiziaria scatenò l’impegno dei radicali per eliminare le norme del Codice Penale che qualificavano l’aborto volontario come delitto.                        Tralascio dell’intervento della Corte Costituzionale che cercava il compromesso e della raccolta di firme per il referendum da parte dei radicali per arrivare subito alla legge del 22  maggio 1978, la numero 194, che sostanzialmente accolse le istanze radicali di liberalizzazione dell’aborto.
Quindi da 35 anni in Italia si può abortire legalmente. Quello che lo Stato un tempo considerava un delitto è da 35 anni un diritto e lo Stato che fornisce, a spese di tutti, le strutture mediche e chirurgiche per praticarlo, è direttamente coinvolto in una incredibile strage di innocenti..
Infatti dal 1978 al 2011 gli aborti di Stato hanno raggiunto il numero di circa 5 milioni e mezzo. Come a dire che lentamente è stata annientata l’equivalente della popolazione del Lazio.
E gli aborti clandestini continuano ad essere praticati. E si ignora la nuova clandestinità: la distribuzione annuale di oltre 300mila confezioni della così detta “pillola del giorno dopo” produce una quantità  imprecisata di abortività non registrata, quindi clandestina.
Se poi consideriamo che nel 2011 gli aborti sono stati più di 110mila su poco più di mezzo milione di nascite vuol dire che gli aborti sono un quarto delle nascite e che su quattro bambini nati uno viene buttato!  Non si conosce nessuna altra condizione di vita in cui la mortalità sia quasi del 25%…
Fin dal 1975 la parola d’ordine delle forze che spingevano per la liberalizzazione dell’aborto fu: “SI AIUTA LA DONNA!”. Donna costretta all’aborto clandestino pieno di rischi per la sua stessa salute ed esposta allo sfruttamento economico di personaggi senza scrupoli.
Anche nel processo fiorentino gli imputati del “CISA”  e del Partito Radicale si difesero così.
Questa cultura “altruista” di aiuto alla donna, presente anche nella legge 194, si fonda su quello che dicevano i radicali che cioè “ogni gravidanza indesiderata sfocia inevitabilmente in un aborto” e che dunque bisognava ottenere “l’aborto libero,gratuito e assistito come una forma di aiuto alla donna”.  
Il primo CAV di Firenze volle dare una risposta diversa, con uno slogan che poi è diventata la parola d’ordine di tutti i CAV d’Italia: “Le difficoltà della vita non si superano sopprimendo la vita, ma superando insieme le difficoltà”. Perché bisognava prima fare, poi parlare.
Se riflettiamo un attimo non si tratta di un programma nuovo. Nella storia sempre la maternità ha suscitato sentimenti di solidarietà sociale. Con specifico riferimento alla prevenzione dell’aborto la cultura dell’insopprimibilità del figlio nel corso dei secoli ha trovato una espressione tanto semplice quanto efficace nella così detta “ruota degli innocenti” e nella moltiplicazione dei luoghi di accoglienza dei bimbi abbandonati. L’esigenza della carità cristiana ha poi trovato modo di aiutare le madri e le famiglie in difficoltà.
Tuttavia la situazione che in quel lontano 1975 si andava preparando era nuova e aggiungerei inquietante. L’idea dell’aborto come aiuto pubblico e la conseguente affermazione del diritto di scelta della donna hanno come presupposto la cancellazione del concepito come essere umano e l’esaltazione dell’autodeterminazione femminile come aspetto del progresso civile. Una tale operazione, prima di tutto di carattere culturale, ha tentato di convincere tutti che l’umanità dell’embrione è una opinione dei cattolici, come tale degna di rispetto in una società pluralista, ma non sostenibile come criterio di azione in uno stato laico.
A questa situazione bisognava dare una risposta in forma nuova che affermasse l’umanità del concepito in nome della ragione e cioè come questione civile (“laica” secondo un non corretto linguaggio corrente) e che interpretasse “l’aiuto alla donna” non come uccisione del figlio, ma come sostegno e condivisione per farlo vivere.
A queste esigenze doveva dare risposta il Centro di Aiuto alla Vita. Esso, si disse, ha il compito specifico di salvare la vita dei bambini non ancora nati. Dando voce a chi voce non ha. Infatti chiamando bambini i feti e gli embrioni si sottolinea,in contrasto con la cultura dominante, che anche prima della nascita vi è un essere umano.
E’ bene chiarire che, sebbene la decisione di costituire il primo CAV nascesse all’interno di un organismo ecclesiale, esso fu pensato come struttura “laica”, aperta cioè alla collaborazione di tutti, perché destinata a dare soluzione ad un interesse civile, non soltanto religioso, rispondente ad una esigenza statale e pubblica, non confessionale.
Il CAV avrebbe dovuto essere infatti non una associazione che si aggiunge alle altre associazioni, ma l’espressione di una intera comunità accogliente. In fondo le leggi che proibiscono l’aborto esprimono una razionalità collettiva: l’idea cioè che i figli,una volta che esistono, debbono essere accolti; mentre la legge permissiva, al contrario, dice che in molte casi i bambini non ancora nati possono essere rifiutati dalla società. Per chiarire meglio: i figli non sono di chi li fa, sono un patrimonio dell’intera collettività.
Il CAV, questo il sogno, avrebbe dovuto essere la forma attraverso la quale la società, nonostante la legge permissiva, dimostra egualmente, una razionalità che decide per l’accoglienza.
La cultura della vita è in fondo la cultura dell’accoglienza: accoglienza a chi bussa alla porta della vita e chiede di essere accettato,così com’è.
Le necessità economiche e di altro genere, la pressione dell’ambiente, la cancellazione del figlio come essere umano nel processo di auto inganno favorito dai messaggi che circondano la donna, costituiscono una autentica “costrizione” all’aborto.
Dunque bisogna restituire alla donna la libertà di far nascere il figlio.
L’esempio del capoluogo toscano fu imitato pian piano da altre città. Il numero dei CAV aumentò sensibilmente nel 1980 e nel 1981, in occasione del referendum sull’aborto. Erano 53. Attualmente sono 330 sparsi su tutto il territorio nazionale.
Da questo sguardo retrospettivo emerge il collegamento innegabile tra i CAV e la legislazione che ha legalizzato l’aborto. Il fenomeno è planetario: ovunque sono apparse le tendenze liberalizzatrici, subito alcuni spezzoni della società si sono organizzati per aiutare le madri in difficoltà per una gravidanza difficile o non desiderata.
Tuttavia i CAV non hanno direttamente lo scopo di contrastare la legge abortista.    Essi intendono manifestare quella “preferenza per la nascita” che in Italia è stata professata, almeno a parole, da molti sostenitori della legge 194 che pensavano, in buona fede, che legalizzandolo l’aborto si sarebbe potuto contenere e combattere.
STORIA DEI MOVIMENTI
Il Movimento Per la Vita, nato dopo il CAV, con intenzioni più direttamente culturali e politico-legislative ha avuto il compito permanente di contrastare la legislazione permissiva e di ottenere modifiche ispirate al rispetto del diritto alla vita. Non ha tralasciato nessuna occasione per ricordare che l’aborto è il crimine più efferato proprio perché si tratta dell’essere più indifeso che esiste.
L’origine del Movimento per la Vita può essere collocata verso la fine del 1976. Attualmente i Movimenti sono oltre 300 e spesso sono associati ai Centri. Comunque molti Centri, come quello di Giarre operano anche come Movimento. D’altronde la cultura della vita e il sostegno concreto alla madre per accogliere serenamente la vita che è in lei vanno di pari passo.
Cultura e assistenza sono due facce della medesima medaglia.
Quindi è da più di 35 anni che il popolo della vita, organizzato nei CAV e Movimenti per la Vita promuove la “cultura della vita”. La “cultura” è un modo di pensare e di agire. La “cultura della vita” si contrappone ala strisciante “cultura della morte”. Cultura che ritiene che chi non capisce e non è capace di volere liberamente (malati di mente, malati in coma, bambini non nati e persino bambini piccoli) non ha dignità umana o almeno ha una dignità minore.
Ne abbiamo un esempio nella così detta “procreazione assistita”, modo improprio di chiamare la “procreazione artificiale”. Qui la procreazione è ridotta a metodica di laboratorio e affidata a mani estranee. I genitori hanno il ruolo di fornitori di materie prime. Il figlio è un bene, un prodotto che si apprezza solo se è come lo si desidera, altrimenti lo si lascia, incuranti del suo destino, così come si fa con le cose.
E infine per la “cultura della morte” il senso del vivere è un piacere, lo star bene. Quando sulla bilancia della vita la sofferenza supera il piacere la vita perde significato e sono quindi da favorire l’eutanasia e il suicidio.
Naturalmente sono pochi quelli che riconoscono di pensare nel modo prescritto. Ma di fatto si comportano in coerenza con questa visione.
Come si è già detto cultura non è solo pensare ma anche l’agire.
La “cultura della vita” dimostra la dignità umana non solo nella visione cristiana, che considera l’uomo fatto ad immagine di Dio, ma anche nell’intera cultura.                 
Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo si legge che ”il fondamento della pace nel mondo consiste nel riconoscimento della dignità di ogni essere appartenente alla famiglia umana e dei suoi uguali ed inalienabili diritti”.
Come si vede la dignità è legata all’esistenza, cioè alla vita in sé.
Ecco perché i CAV e i Movimenti che nei loro statuti si impegnano alla difesa della vita dal concepimento alla morte naturale si sono impegnati e  si continuano ad impegnare per tutelare la dignità della vita in tutte le sue fasi.
ORGANIZZAZIONE
Negli anni i CAV e i Movimenti si sono riuniti in insieme in Federazioni regionali ed in una unica Federazione nazionale.
Dal 1980 i CAV insieme ai Movimenti hanno costruito la loro identità e definito le loro funzioni soprattutto attraverso un annuale convegno svoltosi in varie località d’Italia.
Inoltre da 1981 a Padova opera un Centro di coordinamento che raccoglie i dati forniti dai CAV sul lavoro effettuato.
Dal 1992 la Federazione Nazionale si avvale di un servizio telefonico operante all’interno del territorio nazionale mediante un numero verde denominato SOS VITA (800 813000), a cui qualsiasi persona può rivolgersi 24 ore su 24 per chiedere aiuto per sé e per gli altri, sapendo che oltre a trovare dall’altra parte dell’apparecchio persone comprensive e preparate la sua domanda sarà immediatamente dirottata verso il CAV più vicino.
Dal 1994 viene gestita a Milano dalla Fondazione Vita Nota, opera del Movimento per la Vita italiano, per conto della Federazione nazionale, il Progetto Gemma.            
L’idea che ha suggerito questo servizio è molto semplice: se i bambini sono bambini anche prima della nascita, allo perche non pensare anche a quelli che corrono il rischio supremo dell’abbandono, tanto grave da essere quello della morte? Questi bambini non sono lontani. Sono vicini a noi, nelle nostre città. Sono le prime vittime dell’aborto.     La seconda vittima è la loro mamma quando si sente spinta a pensare all’aborto per difficoltà varie, tra le quali frequentemente vi è quella economica.
Perché allora non pensare ad una “adozione a distanza ravvicinata” per salvare addirittura la vita stessa di un bambino non ancora nato e insieme la serenità di una madre? Così è nato “Progetto Gemma”. Con lo slogan,”adotta una madre, salva il suo bambino”.
L’Italia pretende di essere uno “stato sociale”, dove dovrebbe essere assurdo privare della vita un bambino per ragioni economiche. Però il Progetto Gemma non vuole supplire alla pigrizia e insensibilità pubblica. Lo scopo non è solo quello di dare aiuto alla donna in difficoltà ma anche di coinvolgere e sensibilizzare la società civile nella difesa della vita. Gli “adottanti” infatti sono singoli o comunità, parrocchie, personale di uffici, condomini, enti pubblici. Si concretizza nell’erogazione della somma di 160 euro mensili per 18 mensilità dal 3° mese di gravidanza (periodo entro il quale si può abortire) fino al primo anno di vita del bambino. La mamma “adottata” è seguita da un CAV in modo continuativo e, oltre alla solidarietà che è già in grado di manifestarle, le fa sentire, attraverso il Progetto Gemma, l’amicizia di altre persone lontane che pensano a lei e al suo bambino. Lo slogan dice tutto: “aiuta una mamma, salva il suo bambino”. E le cifre parlano chiaro dal 1994  con il Progetto Gemma sono stati sottratti al’aborto oltre 20mila bambini e le loro madri.
Vi è poi il mensile “Sì alla vita”. Non è un giornale di evasione. Lo può leggere solo chi vuole informarsi, formarsi e sostenere gli ideali e le iniziative concrete di cui esso è espressione e strumento.
Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium vitae, al n. 95 ci ha esortati pressantemente. “Urge una generale mobilitazione per costruire una nuova cultura della vita”. La “mobilitazione” implica un atteggiamento attivo e la “cultura” suppone una capacità persuasiva di parlare, spiegare, dialogare. “Sì alla vita” è lo strumento ideale per formarsi e poter informare.
Anche le Case di accoglienza, collegate in vario modo con i CAV (sono circa 70) hanno varia origine, inquadramento, metodologie. Alcune preesistevano, altre sono sorte per iniziative autonome, altre sono diretta emanazione di un CAV  o di un Movimento per la vita.
Il Centro di Documentazione e Solidarietà produce e distribuisce, a prezzo di costo, tutto il materiale informativo e divulgativo. Molti CAV e Movimenti hanno materiale personalizzato.
Solo nella Federazione nazionale vi è personale specializzato (tipografi, ragionieri) stipendiato. Tutti gli altri sono volontari.
Le “Culle per la vita”. Sono presenti in molte città, sono circa 40, l’ultima l’anno scorso è stata realizzata a Giarre. Sappiamo bene che difficilmente madri disperate approfitteranno delle “culle”.purtroppo le cronache continuano a riferire di neonati uccisi o lasciati in vari luoghi, certamente più pericolosi di una “culla per la vita”.     Ma, indipendentemente della loro efficacia diretta, esse dicono ai passanti e ai lettori dei giornali che ne parlano che “che i bambini non si buttano e che la società è pronta ad accoglierli”.
STRUTTURE DEI CAV
La nascita dei CAV è frutto di volontariato spontaneo: per intenderci è una chiamata! Per cui l’organizzazione,la consistenza e l’efficienza dei vari CAV non è sempre la stessa. Talvolta sono radicati in una parrocchia, qualche altra sono sostenuti da una intera diocesi, più spesso sono autonomi rispetto alla realtà ecclesiale. Non manca qualche CAV collegato strettamente a un consultorio. Una linea di tendenza difficile, specie negli ultimi tempi, ma tenacemente perseguita è quella di introdurre i CAV direttamente negli Ospedali, perché, parliamoci chiaro, è là che si praticano gli aborti.
Grazie all’esperienza che abbiamo acquisito presso il CAV di Giarre, operativo dal mese di settembre del 2005, possiamo dire che per poter essere sempre pronti all’ascolto e mostrare il rispetto che si ha di chi ha bisogno è importante la disponibilità e l’organizzazione.
E’ quindi indispensabile il telefono e l’apertura della Sede in orari stabiliti da comunicare a SOS VITA. Ma i volontari di un CAV, su richiesta, sono disponibile in qualsiasi giorno o ora pur di salvare un bambino!
Il CAV per farsi conoscere deve raggiungere i servizi sociali, le parrocchie, gli studi medici, i laboratori di analisi e collocare quanto più materiale pubblicitario è possibile nei luoghi aperti l pubblico: molte volte basta un numero di telefono per salvare una vita.
I volontari si mettono a disposizione secondo le loro capacità, professionali e non, o secondo i propri carismi. Chi risponde al telefono o è in Sede nelle ore di apertura svolge un compito assai delicato e difficile perché l’incontro, il contatto con la madre ha una importanza fondamentale. Oltre ad avere lo “sguardo”  sul figlio vi è un secondo soggetto da riconoscere: la madre. Bisogna dunque riconoscere questa donna nella sua fragilità, nelle sue paure, nelle violenze e pressioni subite, nella sua capacità di rifiuto. Ma bisogna pure liberarla dai condizionamenti esterni e restituirle il coraggio dell’accoglienza, vuol dire scommettere sulle sue verità di donna e di madre.                
E nel fare questo bisogna prometterle quello che i volontari del CAV possono fare per lei, per esserle vicino e quando occorre aiutarla economicamente. E tutte le promesse debbono essere mantenute.
E la vicinanza è veramente continua. Comincia con l’assistenza ginecologica, durante e dopo il parto, e prosegue se occorre fornendo tutto il necessario per il bimbo. Se occorre si cerca di provvedere alle necessita e si procurano alloggi, arredi, lavoro, assistenza legale e si fa servizio di baby parching.
I CAV sono vocati ad assistere le donne che decidono di non uccidere le loro creature, ma l’amore alla maternità li porta ad assistere anche gestanti che hanno autonomamente deciso di portare avanti la gravidanza. Di norma non fanno assistenza generica.
Le forme di finanziamento sono quasi sempre non pubbliche, per cui oltre ad affidarsi alla provvidenza e avere delle quote sociali ci si ingegna con raccolte di vario genere. Per esperienza personale possiamo dire che la provvidenza fa sì che con la generosità dei commercianti e dei privati non manca mai niente, anzi…
Sono stati pubblicati i dati del Centro documentazione relativi al 2011.
Cito solo i più importanti.
Nel solo 2011 si stima siano almeno DICIASSETTEMILA i bambini salvati grazie ai CAV. Sommati agli altri calcolatidal 1990 raggiungono la cifra di CENTONOVANTAMILA.
Le donne assistite sono state CINQUANTAMILA. Il 99% delle donne che hanno deciso di portare avanti la gravidanza non hanno abbandonato i loro piccoli. Anzi per esperienza possiamo dire che se hanno altri figli, a quello che insanamente volevano uccidere sembra vogliano più bene.
Mi piace concludere con quanto disse Giovanni Paolo II (il gigante della vita, della famiglia e dei diritti umani) durante la visita al CAV di Firenze il 19 febbraio 1986.
Vengo in questo Centro per dare con la mia presenza un segno del vivo apprezzamento verso l’opera e le finalità di una istituzione che  merita l’appoggio di quanti sono pensosi dell’avvenire sociale,umano e religioso. Questo Centro ha il significato di una testimonianza a favore del primato della vita umana a confronto di tutti gli altri valori di ordine materiale, vuole essere un richiamo ai giovani e ai grandi perché comprendano che una società giusta non si costruisce con l’eliminazione degli innocenti, intende rilanciare il senso della sacralità della vita umana, creata da Dio per il destino trascendente ed integrale in tutto l’arco della sua esistenza.
Il Centro è una sfida ad una mentalità di morte.
Auspico vivamente che i cristiani,i credenti, gli uomini di buona volontà vogliano collaborare con impegno sincero e costante ad una opera così evangelica, favorendone un coerente sviluppo.
E con questo auspicio, rivolto a tutto il popolo della vita, vi ringrazio per avermi ascoltato.

                                                                                      Il presidente del CAV di Giarre

                                                                                                                       Cesare Scuderi

Print Friendly, PDF & Email