Clima, dalla parte dei poveri

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Clima
I poveri sono i più minacciati

Dal 7 al 18 dicembre i governanti di tutto il mondo si riuniranno a Copenaghen per la 15ª conferenza delle Nazioni Unite sul clima. Sarà il più grande vertice di sempre sul cambiamento climatico e da esso si attende un accordo per il contenimento delle emissioni inquinanti da applicarsi dopo il 2012, anno in cui cesserà la validità del protocollo di Kyoto del 1997. La comunità internazionale dovrà definire le linee di un’efficace azione di contrasto al riscaldamento del pianeta, un fenomeno che ha implicazioni non solo ambientali, ma anche etiche, in quanto a subirne le conseguenze (catastrofi naturali, siccità, carestie, epidemie) sono soprattutto gli Stati più poveri, che non ne sono di certo la causa.

Premesse non buone. “Il vertice dovrà mediare tra emissioni storiche, che per il 70% sono imputabili ai Paesi sviluppati – spiega Matteo Mascia, ricercatore della Fondazione Lanza di Padova – ed emissioni attuali, con la Cina che, in valore assoluto, ha superato gli Usa. Le premesse per un accordo però non sono buone: mentre l’Europa è disposta a ridurre le proprie emissioni del 20% entro il 2020, i buoni propositi manifestati dal presidente Obama si sono persi tra lentezze legislative interne; inoltre Paesi emergenti come India, Brasile e la stessa Cina non sono propensi a pagare per una situazione di cui non si sentono responsabili”. Secondo Mascia, se il vertice si concludesse con un “nulla di fatto”, i vulnerabili Paesi del Sud vedrebbero compromesse le loro possibilità di emanciparsi dalla povertà. Per garantire loro un futuro, gli Stati ricchi dovrebbero invece individuare precise modalità per il trasferimento, a costi accessibili, sia di tecnologie a bassa emissione di Co2, sia di tecnologie che permettano di adeguarsi ai mutamenti già in atto, come la desertificazione dei terreni e la violenza delle precipitazioni fuori stagione. Si calcola che, per riparare i danni dei cambiamenti climatici nel Sud del mondo, i Paesi che ne sono responsabili dovrebbero versare dai 50 ai 100 miliardi di dollari all’anno.

Per un clima di giustizia. Ma a Copenaghen difficilmente si siglerà un patto vincolante sul “debito ambientale”: “Non si può far dipendere dalla carità dei Paesi ricchi la possibilità per quelli poveri di elaborare propri modelli alternativi di sviluppo, che si rendono necessari in quanto il pianeta non riesce più a sostenere le dinamiche che hanno dato il benessere a noi”, afferma Luca Basile, coordinatore del comitato scientifico della campagna “Crea un clima di giustizia”, promossa dalla Federazione organismi cristiani di servizio internazionale volontario (Focsiv) per sensibilizzare i potenti della terra sulla dimensione etica dei mutamenti climatici. “I Paesi del Nord – continua Basile – dovranno esportare tecnologie e buone pratiche che si accordino con le tradizioni e la cultura delle popolazioni del Sud che, non dimentichiamolo, spesso vivono in simbiosi con la natura e ne conoscono i limiti più e meglio di noi. Nella costruzione di nuove dinamiche di sviluppo, anch’esse possono dunque offrire numerosi saperi, che vanno stimolati con la creazione di appositi centri di ricerca”.

Alcune richieste. I tempi per invertire la tendenza delle emissioni di anidride carbonica sono stretti. Per questo, la campagna della Focsiv avanza precise richieste ai partecipanti al vertice: “Ai Paesi storicamente responsabili delle emissioni, chiediamo di ridurle del 30-40% rispetto al 1990 entro il 2020, per evitare che l’aumento medio della temperatura dall’epoca preindustriale superi i 2 gradi: sopra tale soglia i mutamenti climatici subirebbero, infatti, una pericolosa accelerazione. A Cina e India, che devono poter liberare i loro abitanti dalla povertà, chiediamo invece di ridurre del 30-40% l’aumento di emissioni previsto. Vorremmo inoltre ci si accordasse, affinché le emissioni convergessero a 1,2 tonnellate per ciascun abitante del pianeta entro il 2050, il che darebbe a tutti gli uomini pari opportunità di sviluppo”.

Ripensare lo sviluppo. Lo sviluppo, per Basile, va ripensato perché il solo trasporto delle merci causa il 30% delle emissioni globali, mentre produrre frutta e verdura fuori stagione consuma cinque volte l’energia delle coltivazioni stagionali. “Dobbiamo puntare su commercio locale, stagionalità ed energie rinnovabili – afferma Basile -. Greenpeace ha elaborato modelli applicabili fin da subito, invece si continua a parlare di carbone e nucleare, perché ai governi manca il coraggio di rivedere le proprie politiche industriali. Negli Usa lavorano da quindici anni al completamento di una centrale nucleare: anche iniziando ora, i benefici arriverebbero troppo tardi”.

(a cura di Piero Cioffredi – Sir)

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