La lettura del romanzo “Il mio posto” di Matteo Viscuso (Youcanprint, 2020), un giovane che ci lasciati improvvisamente nel 2015 a soli trentuno anni, induce a riflettere sulla condizione dei giovani nel nostro tempo e sul loro smarrimento nel dover scegliere in una società che delude le loro aspettative ed è sempre in frenetico movimento e orientata alla produzione materiale “forse per scongiurare il pensiero del tempo”.
La vita di Paolo (il personaggio dominante) è un continuo oscillare tra il volere emergere e l’incapacità di impegnarsi per raggiungere degli obiettivi. Sembra che tutto debba piovere dall’alto senza l’apporto del sacrificio personale. Le prospettive del futuro sono nebulose e Paolo si ferma ad attendere, avvertendo un senso di inutilità. Lo stesso proseguimento degli studi all’università è un percorso lento e pieno di dubbi sull’utilità della laurea per inserirsi nel mondo del lavoro. E spesso Paolo avverte un senso di inadeguatezza e di angoscia che non gli fa intravvedere un esito positivo.
Certamente si aspetterebbe comprensione, ma da chi? La madre vedova, che vive a Enna Bassa assieme ad una figlia affetta da una malattia invalidante, ha delle aspettative sul figlio e lo mantiene negli studi a Catania perchè possa frequentare l’Università e laurearsi. Ma Paolo teme di deluderla dicendole che desiderara “tagliarla con gli studi” e rimane in una situazione di incertezza e insicurezza.
Il mio posto: l’inquietitudine del protagonista
Quando Paolo rientra provvisoriamente dalla città nella casa materna pensa di attenuare l’inquietudine e il senso di apatia. Ma di lì a poco avverte un’ aria sfissiante, stagnante e inerte che gli fa preferire il ritorno a Catania dove si illude di immergersi nella folla indaffarata, “uno fra molti” pensando così di raggiungere la felicità : “… e quella parola nella mia testa piombava come un’imbarazzante enormità. Tentai subito di occultarla dietro qualche nuovo pensiero, come un ladro che nasconde la refurtiva”. Lamenta l’inutilità dei suoi giorni e non riesce a scrollarsi di dosso la “rassicurante apatia” che causava “mediocri risultati nello studio”. Vanificando le sue velleità di scrittore, che vantava in incontri con altri colleghi per tentare di farsi apprezzare ed avere un riconoscimento del suo valore.
Sì, un “riconoscimento” ma da chi oltre che alla madre? Da un fratello lontano, uno zio tuttofare, una sorella con gravi problemi di salute o dalla società distratta e indifferente? E allora diventa davvero difficile trovare il proprio posto. In alcuni momenti nella sua mente si rincorrono lontane ipotesi come “l’idea che la vita avrebbe anche potuto non avere altro scopo all’infuori del suo consumarsi, orrore e morte celarsi ovunque, pronti ad aggredire”.
Ma subito rientrando in se stesso si accorge di essere vivo, di “abbracciare l’universo intero” e ritrovarsi seduto dove si trovava.
E allora riconosce che non c’è “alcun mistero da decifrare che non fosse in me”. E’ questa la “cifra” di tutto. Il giovane pensa che al momento l’unica “soluzione” è quella di rimandare ogni decisione. Ed è la condizione di tanti giovani di oggi che , come è scritto nella prefazione anonima, “aspettano che un giorno succederà qualcosa, che il mondo, prima o poi, capisca quato valgono .. perché non si accontentano più, non conoscono il senso del sacrificio, vogliono tutto e il processo della loro indipendenza è sempre più lontano”.
Il mio posto: paura di crescere e solitudine
Si ha paura di crescere e di “doversela cavare con le proprie forze, sentendosi soli al mondo”. I contatti con i coetanei restano sempre deludenti, un bagliore di luce sembra avvolgere il protagonista nel suo rapporto con la giovane Elena, che gli rivela qualche attenzione. È una donna che “sapeva bene quel che faceva. Lei, sapeva quel che voleva”. Alla fine l’autore ci lascia intravvedere che anche questa è un’illusione che uccide ogni speranza.
Quest’opera descrive e racconta il vissuto asfissiante di tanti giovani di oggi, senza certezze e prospettive, con ideali (quando ci sono) subito rimossi o spenti perché ritenuti fuori dalla realtà e pertanto non in grado di motivare all’azione e all’impegno per il raggiungimento di qualsiasi obiettivo e si inserisce nel personaggio dell’ inetto, in conflitto con la sua epoca e con se stesso.
Ci richiama Pirandello e soprattutto Italo Svevo, ma anche Kafka che, però, radicalizza la sua condizione: “L’inetto è escluso dalla società e prova vergogna e ribrezzo verso se stesso”. Una profonda inquietudine esistenziale, piatta e irresolubile. L’opera ha dei pregi letterari indiscutibili, ma soprattutto aiuta il lettore a capire cosa accade a non pochi giovani del nostro tempo.
Il padre di Matteo Viscuso ha ritrovato nel computer del figlio questo romanzo che Matteo aveva elaborato nel tempo e la cui ultima modifica era stata apportata il 20 giugno 2015, mentre la morte del giovane risale al 24 luglio dello stesso anno. Il padre, affranto, ha provveduto a far pubblicare l’opera e ha deciso di destinare il ricavato esclusivamente all’Associazione Endometriosi Italiana.
Giovanni Vecchio