Condividiamo la riflessione partita da un’affermazione dell’insegnante statunitense David McCullogh: “Ragazzi, voi non siete speciali”. Una frase che lascia perplessi all’impatto, ma che se analizzata attentamente fa nascere parecchie considerazioni al riguardo. A riprenderla, studenti impegnati in redazione con l’Alternanza Scuola-Lavoro.
Era il 2012 quando il discorso di David McCullogh, professore di inglese alla Wellesley High School di Boston, diventò virale, collezionando più di due milioni di visualizzazioni in un solo giorno. L’inizio del discorso recitava così: «Voi non siete speciali. Vi hanno viziati, coccolati, idolatrati. Ma diversamente da quanto suggeriscono il trofeo che avete vinto a calcio o la vostra splendida pagella, non lo siete. Anche se ci fosse un diplomato su un milione, sareste comunque settemila sulla terra: se siete tutti speciali, non lo è nessuno». Oggi come allora queste parole alle orecchie di noi giovani risuonano molto familiari.
Pochi mesi dopo, il discorso di McCullogh era già diventato un libro: Ragazzi, non siete speciali! E altre verità che non sappiamo più dire ai nostri figli (Garzanti, 252 pagine, euro 15, traduzione di Roberto Merlin). L’autore spiega come il suo libro parta dalla prospettiva di insegnante, che ha osservato genitori spendere sempre di più per dare un’istruzione di qualità ai propri figli, con il risultato di caricarli di aspettative. Il libro è dedicato «non soltanto agli adolescenti, ma anche e soprattutto a mamma e papà. È da loro che nascono moltissime delle ambizioni sbagliate dei ragazzi, e delle loro frustrazioni», dichiara l’autore.
Riflessione / Ragazzi non siete speciali
Cosa significa che non siamo speciali? Bisogna conoscere il prosieguo del discorso per capirlo. «Noi americani—dice il professor McCullogh—siamo arrivati a preferire i riconoscimenti rispetto alle conquiste genuine. Siamo arrivati a pensare che siano questi il punto. E siamo lieti di fare compromessi sulla qualità, o di ignorare la realtà, se sospettiamo che questa sia la via più veloce o l’unica via per avere qualcosa da esporre sulla mensola del caminetto, qualcosa per cui atteggiarsi, di cui vantarsi».
Questo discorso risuona familiare quando scopriamo che per la prima volta il nostro Liceo classico Gulli e Pennisi non si è posizionato tra i migliori licei nella sua categoria, quando capita di leggere e di sentire discorsi vaghi sull’eccellenza, quando leggiamo sui giornali locali che questa o quell’altra università ha scalato qualche posizione all’interno di un ranking i cui criteri sono sconosciuti ai più. Si tratta sempre di trofei, di riconoscimenti, che vengono sciorinati senza ritegno da chi se ne fregia—spesso—senza avere alcuna idea di cosa significhino. Ci pensiamo quando leggiamo le disparità tra i voti di maturità al sud e al nord, e li confrontiamo con le statistiche ottenute attraverso la prova Invalsi.
Riflessione / McCullogh: ragazzi non siete speciali
La prima conclusione da trarre dal discorso del professor McCullogh è quella che trae lui stesso. Se tutti vincono trofei, se tutti sono i più bravi, i trofei perdono di significato, si inflazionano. Non sono più un segnale affidabile di ciò che dovrebbe starci sotto. La seconda considerazione da fare è che i comparativi o i superlativi relativi sono appunto relativi a una classe, a una popolazione, a un insieme di individui. Come lui stesso nota più volte, più si estende la classe, meno questi superlativi hanno senso. Secondo questa logica, potrà forse esistere “il/la più bravo/a della classe”, della scuola, d’Italia. Ma non ha senso parlare, in qualunque ambito, del “più bravo del mondo” del più bravo su una popolazione di 7 miliardi: del “più bravo in assoluto”.
McCullogh / A che servono le classifiche?
Bisogna dunque chiedersi a cosa servono le classifiche. Secondo l’interpretazione di McCullogh sono innanzitutto un modo per stare tranquilli. Essere “i più bravi”, posizionarsi bene in una qualunque scala di valore, più o meno effimera, ci rassicura. Ci rassicura prima di tutto sul nostro valore. Ci permette di ignorare le domande importanti. Se al liceo ho una buona media, se sono “il più bravo in matematica”, posso tranquillamente evitare di chiedermi se la matematica mi piace, quali sono i fattori alla base di questo successo. Sono bravo perché mi viene facile? Oppure sono bravo perché è sempre stato importante per i miei genitori che io lo fossi? Forse sono bravo perché l’asticella è bassa?
Sono bravo perché mi impegno o perché metto le cuffie alle interrogazioni, copio i compiti e sto simpatico al professore? La retorica dell’eccellenza e del trofeo è pericolosa innanzitutto perché fa perdere di vista il come, il percorso, il metodo che portano al risultato. Prescindendo dai quali, il risultato nudo e crudo non ha valore alcuno. Dare importanza alla media dei voti, al voto finale, al ranking interno ed esterno fa perdere di vista lo scopo principale di ogni istituzione educativa: imparare, faticare, conoscersi e riconoscersi in quello che si studia, appassionarsi. Imparare non soltanto quello che è utile nell’immediato, a scopi strumentali, e nemmeno soltanto quello che—nella percezione distorta della realtà—ci distingue dagli altri. Imparare ciò che ci serve per immaginarci e costruirci come persone.
Riflessione / Ragazzi, non siete speciali: la logica dell’eccellenza
La logica del trofeo e dell’eccellenza è potente anche perché rassicura su un altro fronte: sul fronte del futuro. Se sono il più bravo, se colleziono voti altisonanti a scuola e poi all’università o se mio figlio lo fa, il futuro è assicurato. Il fallimento, ciò che c’è di più umano e di più sicuro se si esclude la morte, viene completamente eliminato dall’orizzonte delle possibilità. Il percorso immaginato è lineare e costellato di traguardi raggiunti. La situazione economico-lavorativa della nostra generazione dice chiaro e tondo che non è così, ma la retorica dell’eccellenza, propinata senza sosta da insegnanti e genitori non sembra tenerne conto. Non dobbiamo fallire, non possiamo permetterci di avere pagelle mediocri, università mediocri, vite mediocri. Quello che siamo non è mai abbastanza, se la posizione ottenuta in un qualsiasi ranking non è quella giusta.
Vorrei sgombrare il campo da qualunque interpretazione del mio pensiero come una critica alla meritocrazia. Credo però che dobbiamo seriamente chiederci se la nostra idea di merito e la scala di merito che stiamo costruendo siano quelli giusti. Dobbiamo chiederci se le istituzioni educative che come studenti viviamo stiano promuovendo un’idea distorta e pericolosa della realtà e dei mezzi che come persone possiamo impiegare per viverci e -eventualmente, e con un po’ di fortuna – per cambiare.
Michela Foti e Claudia Patanè