Poesia e Fede / “Stabat mater”, composizione emblematica della raccolta “Gabbiani”

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Maria Laura Tringale con il marito Nino Ortolani in una foto di qualche anno fa

Nel ringraziare ancora una volta la casa editrice “La Voce dell’Jonio” per aver accettato la mia richiesta di pubblicazione della raccolta di poesie “Gabbiani” di Maria Laura Tringale (mia moglie), vorrei proporre qualche spunto di riflessione sulla raccolta e su una poesia in particolare.

Maria conservava nel cassetto un cd contenente diversi file. Appena l’ho trovato, ho subito stampato il contenuto (alcune centinaia di pagine), che anche lei ha potuto leggere e correggere. Tra queste una raccolta di 60 poesie numerate, con un titolo che introduce bene l’argomento: alcune dedicate alla nostra terra che tanto amava.

La poesia ” Stabat mater” l’unica in siciliano, lingua trascurata

L’unica scritta in dialetto porta il titolo “Stabat Mater”. Una volta uscito il libro dalle stampe, si è pensato di dare dei chiarimenti per la comprensione del testo e tradurre alcune voci per chi non conosce il dialetto siciliano. I programmi scolastici hanno contribuito alla perdita del dialetto, per cui pochi in Sicilia lo comprendiamo, ma pochissimi sono in grado di scriverlo. Maria amava molto le tradizioni popolari e si è cimentata a scrivere in versi quanto ha raccolto dalla viva voce dei familiari, e dalla lettura di autori come Pitrè, Verga, Martoglio e Capuana.

Parlando del “siciliano”, spesso si sottolinea che è una lingua che non possiede il “futuro”: per dire “andrai”, usa “domani ci vai”. La produzione letteraria del Verga è ricca di pessimismo: il romanzo “I Malavoglia” è la descrizione delle disgrazie di una famiglia lungo una generazione. Sono tante da superare quelle che possono avvenire in un secolo.

Le sofferenze del mondo paragonate alle sofferenze di Cristo e di sua madre

La devozione del “Cristo morto” è molto sentita dalle nostre parti, e la relativa processione presenta un raccoglimento maggiore di quella del Corpus Domini. È importante quanto detto per capire i primi versi sulla sofferenza del mondo (munnu) in tutte le fasi della vita (ranni e nichi) e in tutte le stagioni (stati e ’nvernu). Tutto si sopporta fino a quando non arriva quella pena che, come il leone con l’agnellino, non “t’addenta” il fianco. A quel punto (Allura) come un povero Giobbi ti dibatti in una strada piena di duluri, ma a fronte alta (ritta), non trascinando la croce, ma, come suggerisce S. Josemarìa Escrivà, portandola con dignità, anche se si avverte il cuore in ginocchio (a dinucchiuni).

La sofferenza della madre nella poesia “Stabat mater”

La mente, illuminata dalla fede, aiuta a pronunciare il “fiat” (’ccussi sia) consapevole che “non fu arrisparmiatu né Gesuzzu, né so matri Maria…” Così si chiude la prima parte, come “primo tempo” di un film in attesa del dramma finale: il dialogo del “Condannato a morte” e della madre che, impotente, assiste ai piedi del patibolo. Il lamento della Madre comincia con espressioni di tenerezza e affetto tipiche della nostra terra: “curina di lu cori” indica la parte più intima dell’affettività; “sciatu” fa pensare al soffio vitale che ha dato inizio all’esistenza umana. “Si putissi…” sostituirmi al tuo dolore, mi sarei messo in croce con le mie stesse mani.

Nella risposta del Figlio viene ricordata la profezia di Simeone: “un cuore trafitto”, e c’è pure l’invito a portare la croce senza spettacolo (battaria). Segue la descrizione dello sguardo amoroso reciproco con la madre: (“mentri t’arridu e tu arridi a mia”) e, contemporaneamente, del dramma intimo: (“sta vampa ca mi scava dintr’o pettu”). La “vampa” è immagine della “lingua di fuoco” che scese nella Pentecoste. Viene da pensare alla fiamma con cui si rappresenta il “Sacro Cuore”. In questo scambio di sollievo e di sofferenza avviene un prodigio: il dolore si trasforma (cangia) in qualcosa di sublime (“in luci e musica”).

Qualunque immagine risulta inadeguata a descrivere la “visione beatifica”; luci e musica sono, nella vita dell’autrice, espressioni che parlano della bellezza del creato. Nel Vangelo di S. Giovanni, Gesù, nell’affidare l’umanità alla Madre, le si rivolge chiamandola “Donna”, a chiusura di questa poesia troviamo: “Maria”.

Nino Ortolani

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