Riflessione / Costruire ponti e non muri superando delusione e offese

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Nello scorrere della nostra esistenza, tutti proviamo dei momenti  di delusione nelle nostre relazioni interpersonali, soprattutto nella sfera dell’amicizia. Lo ricorda, con dure parole l’Orante: “Se mi avesse insultato un nemico, l’avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo in festa” (Sl  55, 13-15).

Lo stesso Signore Gesù, nel momento in cui si avviava alla passione, non solo ha sperimentato l’amarezza della solitudine e dell’abbandono da parte dei suoi, ma ha dovuto placare l’entusiasmo di Pietro e dei discepoli tutti, che si dichiaravano pronti ad andare a morire con lui: “ Pietro gli disse: «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai». Gli disse Gesù: «In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». Pietro gli rispose: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dissero tutti i discepoli” (Mt 26, 33-35).

E’ facile essere compagni di cordata quando tutto procede secondo i nostri piani, quando l’amicizia non chiede, né reclama nulla, quando la comunità non ci chiede di assumere delle responsabilità; risulta molto più difficile entrare in empatia quando bisogna comprendere il silenzio dell’altro, quando un gesto, una parola, una assenza, riesce a ferire.
Dark Angel scrive: “E’ bellissimo avere qualcuno che quando ti chiede <<come stai>> e gli rispondi <<bene>>, ti guarda e ti dice <<dimmi che hai>>”.ponte

Il cammino sinodale, presentando il cantiere dell’ospitalità e della casa, scrive: “ ’Una donna, di nome Marta, lo ospitò’ nella sua casa. Il cammino richiede ogni tanto una sosta, desidera una casa, reclama dei volti. Marta e Maria, amiche di Gesù, gli aprono la porta della loro dimora. Anche Gesù aveva bisogno di una famiglia per sentirsi amato. Le comunità cristiane attraggono quando sono ospitali, quando si configurano come ‘case di Betania’ ….”. Dobbiamo imparare questo stile, quello dell’accoglienza vera, prima ancora di spalancare le porte di casa e della chiesa,  dobbiamo aprire quelle del cuore. Far percepire all’altro che per noi è caro, che ci appartiene e, se è il caso, che ci preoccupa pure. Dobbiamo imparare a costruire sane e vere relazioni, dove ognuno, come a Betania, possa sentirsi amato, accolto  e non usato.

E, se le inevitabile delusioni possono incrociare il cammino, bisogna imparare a superarle, guardando non al singolo evento che le ha generate, quanto al valore più alto, che va sempre salvaguardato, difeso  e custodito.
Nel nostro dialetto c’è una espressione che suona così: “cu avi cchiu’ sali, conza a minestra”, credo che nella sua semplicità sia vera. Dobbiamo abbattere i nostri orgogli, la tentazione che siano sempre gli altri a fare il primo passo per scusarsi, soprattutto quando ci siamo sentiti feriti, dimenticando che non sempre l’altro  ha la sensibilità di farlo o di riconoscere una sua responsabilità. Una delusione,  come una arrabbiatura, non deve mai durare a lungo, altrimenti logora la relazione,  e, “chi ha più sale”, è chiamato a smontarla.

Come singoli e come comunità, siamo chiamati a costruire ponti, non muri,  dove il camminare insieme diventi espressione di gioia e di condivisione, abbattendo qualsiasi ostacolo che ci impedisca di realizzare un progetto, o un cantiere, di comunione.
Una sosta, così come una delusione,  non è mai definitiva, qualche volta aiuta a riprendere fiato, a tracciare meglio il cammino, a camminare più spediti. Ci aiuta a crescere nell’amicizia e nell’esperienza della comunità, “dimentichi del passato e protesi verso il futuro” (Fil 3,13).

Don Roberto Strano