OLTRE LA CRISI/2 L’industria italiana a un bivio: o cresce o sparisce

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Eppure siamo ancora in vetta a molte classifiche mondiali. Non possiamo però più perdere tempo e veder scappare gli investitori stranieri. Abbiamo il dovere di rendere questo Paese più amichevole per chi voglia investire. Con una burocrazia che non esiste per autoalimentarsi; poche leggi ma rispettate; meno fiscalità su imprese e dipendenti; una giustizia civile che faccia gli interessi degli italiani e non degli avvocati. L’ideale sarebbe creare spazi d’impresa con legalità, infrastrutture e fiscalità agevolata nel Sud. E poi agganciare le occasioni del domani, signora Merkel permettendo.

L’Italia è il Paese di pizza e mandolini, ma solo nell’immaginario collettivo più stantio. Siamo il secondo Paese al mondo per produzione industriale pro capite; il secondo in Europa (dopo la Germania) per scambi commerciali di manufatti; al quinto posto al mondo per valore aggiunto manifatturiero. Insomma siamo un grande Paese industriale.

L’Italia è il Paese di pizza e mandolini, ma solo nell’immaginario collettivo più stantio. Siamo il secondo Paese al mondo per produzione industriale pro capite; il secondo in Europa (dopo la Germania) per scambi commerciali di manufatti; al quinto posto al mondo per valore aggiunto manifatturiero. Insomma siamo un grande Paese industriale, che occupa posizioni di assoluta rilevanza nel mondo nei settori dell’arredamento, abbigliamento, farmaceutica, meccanica non elettronica, sistemi di produzione di calore, cuoio e calzature, elettronica di consumo e componenti elettrici, mezzi di trasporto, pneumatici, manufatti di base. Oltre alla pizza, cioè ai prodotti alimentari e al vino, di cui siamo leader mondiali al fianco della Francia.

Queste le luci, sempre più offuscate da molteplici ombre. Anzitutto quelle dimensionali: si è sempre detto che la nostra forza è quella delle medio-piccole aziende. Flessibili, capaci di adattarsi e di cambiare, con una guida quasi sempre a carattere familiare.

In tempo di globalizzazione (e di crisi globalizzata) la forza diventa una debolezza. Le piccole aziende non hanno le gambe necessarie né per correre verso i mercati mondiali, né per parare i colpi di una concorrenza moltiplicata per cento in breve tempo, con la zavorra di un euro forte che non aiuta né i prezzi interni, né le esportazioni.

Le medie aziende… sono semplicemente dei nani a livello mondiale. Magari validissime, magari redditizie: ma irrimediabilmente piccole. Un campione nazionale dell’alimentari come il Gruppo Barilla fattura quasi 4 miliardi di euro; la svizzera Nestlè ha superato quota 92. Granarolo è azienda leader in Italia nel lattiero-caseario con quasi un miliardo di euro; la francese Lactalis (quella che ha acquistato Parmalat) fattura dieci volte di più. E quando c’è stato da acquistare recentemente una centrale del latte slovena, l’offerta di Granarolo è stata sommersa da quella francese, che ha impedito alla concorrenza italiana di costruire un polo del latte italo-sloveno-croato. Armani è uno stilista da 2 miliardi di euro all’anno; ma il polo del lusso è francese (LVHM) e fattura 14 volte di più.

Avere alle spalle gli utili derivanti dai 3,5 miliardi di dollari fatturati dal gruppo vinicolo Constellation Brands aiuta ad affrontare qualsiasi mercato del mondo; l’italiano Giv, un colosso nazionale, si ferma dieci volte sotto. E si potrebbe ricordare che abbiamo inventato tante squisitezze alimentari, ma le multinazionali della pizza, del gelato, del cibo take-away, del caffè, dei salumi sono tutte straniere.

I piccoli, fino a qualche anno fa, facevano comunella nei distretti industriali: quello della sedia ad Udine, del marmo in Valpolicella, del mobile in Brianza, delle scarpe ad Ascoli, dell’oro a Vicenza o Arezzo… Grande cosa, quando c’era da lavorare sodo per far fronte ad ordini crescenti. Poi la crisi, la fuga delle aziende più grandi verso l’estero (a cercare clienti, a spostare le fabbriche), la morte di quelle più piccole schiacciate da margini sempre più esigui e da ordini in rarefazione.

Le grandi aziende… Già, ma quali sono? Eni è un campione negli idrocarburi, che non estrae certamente a Milano. Enel una multiutility energetica; Fiat mantiene a malapena le sue (poche) fabbriche italiane, ma ormai sta con cuore e portafoglio a Detroit. Altri gruppi industriali si sono spostati dal tessile e dalla manifattura alle autostrade, agli aeroporti, ai servizi.

E poi la crisi, che sta radendo al suolo i grandi marchi di elettrodomestici italiani, le acciaierie di Piombino e Terni (Taranto è un caso a parte), una parte del settore farmaceutico, alcuni famosi marchi dell’arredamento e altri ancora.

L’Italia che conoscevamo fino a ieri rischia la deindustrializzazione. Le multinazionali straniere si stanno ritirando, preferendo magari investire in Turchia o Slovacchia; di nuove non ne arrivano: i giapponesi vanno a produrre auto in Gran Bretagna e non da noi, e non stiamo nemmeno a spiegare perché. Molte piccole aziende, per sopravvivere, hanno spostato i siti produttivi in Romania, Serbia, Cina.

Hai voglia di dire che “in Italia rimane il cervello”, cioè la sede, l’ideazione dei prodotti, la rete vendita. Sul fronte occupazionale queste scelte provocano un’emorragia continua di posti di lavoro: ne abbiamo persi oltre un milione nel 2012, una cifra colossale sia per quantità (quasi 3mila al giorno!) sia per potervi fare fronte con la cassa integrazione e con nuove occasioni di occupazione. Tra l’altro, significano 15-20 miliardi di redditi non più disponibili, e non più spesi: da qui il tracollo dei consumi interni che ha coinvolto pure i generi alimentari. Per la prima volta dal 1945.

Bisogna fare qualcosa è il leit motiv che potrebbe vincere il festival di Sanremo, da quanto è gettonato. Rendere questo Paese più “friendly”, più amichevole per chi voglia investire – italiano o straniero che sia –: significa una burocrazia che non esiste per autoalimentarsi; poche leggi ma rispettate; meno fiscalità su imprese e dipendenti; una giustizia civile che faccia gli interessi degli italiani e non degli avvocati; e altro ancora ma basterebbe (eccome!) questo.

L’ideale sarebbe creare spazi d’impresa con legalità, infrastrutture e fiscalità agevolata nel Sud; ma il solo pensarlo – pensare cioè che ciò possa accadere, e pure a breve – fa sorridere il 101% degli italiani.

Un campo meglio predisposto sarà sicuramente terreno più fertile per l’industria di oggi, ma l’Italia ha anche il dovere di non lasciarsi sfuggire le occasioni del domani. Cioè l’informatica, le nanotecnologie, la farmaceutica, l’elettronica applicata, i materiali innovativi, insomma il futuro che è già presente in altri Paesi. E ricordarsi di essere l’avamposto dell’Europa nel Mediterraneo, il primo lembo ben infrastrutturato per le merci che arrivano dall’Asia; il ponte tra Africa ed Europa (petrolio, metano, energie alternative). Porti ed interporti, reti del metano e cavi elettrici sottomarini, rigassificatori e cargo aerei, smistamento a sud dei prodotti del Nord, e viceversa. Industria e servizi ad alto valore aggiunto. Ne riparleremo.

Però prima occorre passare da Berlino, com’è nel programma del premier Enrico Letta. Ricordare che il soffocamento della nostra economia determina grandi vantaggi a quella tedesca, e non va bene. Che farci andare in malora per comprarci a prezzi di saldo non va bene. Che tenerci ostaggio di un euro made in Germany che per noi, oggi, è un macigno sopra la testa, non va bene.

Che siamo l’Italia e non il Liechtenstein. Stabilito questo, amici più di prima e si riparta a riattivare questa grande, malata economia.

NICOLA SALVAGNIN