Al Municipio di Randazzo, finita la cerimonia per festeggiare il campione mondiale di forgiatura, Carmelo Carmeni, chiediamo un’intervista all’artista-artigiano. Carmelo ci concede pochi minuti, considerata la mole di partecipanti alla festa, così da non trascurare nessuno. Già qualcuno ci ha preceduto: si tratta della piccola Fabiana, la figlia, che riempie di coccole il suo papà.
Contento della cerimonia, che Randazzo ti ha dedicato?
Certamente, anche se non amo stare al centro dell’attenzione. Ho sentito il pubblico davvero affettuoso. In particolar modo mi hanno colpito le parole di un’amica, che avvicinandosi ha sussurrato “che mio padre fosse lì, presente, e fiero di me”.
Sei stato in grado di suscitare molti interventi.
Non credo che il merito sia stato mio, semplicemente dettato dalla scontentezza degli animi. Oramai la gente è stanca di sentire solo promesse da amministrazioni che si succedono. C’è bisogno di fatti.
Ne citeresti alcuni?
Diversi hanno posto l’accento, me compreso, su quanto potrebbe essere fatto affinchè si possano avvicinare i giovani, sin dalla tenera età, ai lavori artigianali. Ovviamente, si è sottolineata l’importanza di locali in sicurezza, perché dobbiamo essere il trampolino di lancio per i ragazzi, suscitare in loro curiosità e se giungessimo a farli innamorare di un mestiere, possiamo dire di aver lasciato una nostra impronta!
Cosa intendi dire, ci spieghi meglio?
Ho sempre pensato che ciascuno di noi dovrebbe preoccuparsi di lasciare questa “residenza estiva” migliore di come l’ha trovata, ognuno lascia una impronta e siamo proprio noi a decidere quale.
C’è un intervento, che ti ha maggiormente colpito?
Diciamo un po’ tutti, perché ognuno ha completato l’altro. Ma in particolare quello del fabbro d’arte Paolo Scelbo, perché credo che, essendo vicino al settore ed avendo lavorato con me, abbia lanciato un messaggio forte, ossia, che per riuscire bisogna lavorare duro, sporcarsi le mani, fare tanti sacrifici. E poi mi sono emozionato con la visione dei due fuori programmi di questa sera, che a quanto pare lo erano anche per tutti i presenti.
Completaci meglio il concetto.
Mi riferisco all’intervento di mia moglie, non tanto per la critica d’arte al protagonista della serata, “Uno, nessuno, centomila”, quanto per il suo essere fiera di me, ma soprattutto per la gioia e la commozione, che leggevo nei suoi occhi e udivo dalla sua voce. E la ciliegina sulla torta è stata l’ambasciatrice di don Santino Spartà, che seppur da Roma ha avuto un pensiero per me. Sono molto credente, pertanto la benedizione di papa Francesco vuol dire tanto. Infatti, penso proprio che la incornicerò, cosa che non ho pensato di fare neanche per l’attestato ricevuto a Stia.
A proposito di Stia, hai ripercorso oggi quest’altra emozione.
Decisamente. Grazie alle proiezioni fatte in aula ho potuto rivivere la premiazione, seppur oggi ancor più di ieri, perché presente tutta la mia famiglia. Quindi il gradimento è stato superiore nella sua completezza.
Perché hai citato particolarmente tuo fratello Salvo?
Lui mi ha affiancato nel mio percorso, e non solo mi ha supportato ma anche sopportato. Perché sono molto caparbio e starmi dietro mi rendo conto, che non è certo una passeggiata.
La dedica della tua opera?
Non poteva mancare, in primo luogo, che pensassi a mia figlia, mia moglie e tutta la famiglia.
Durante la cerimonia si è levata una voce dal pubblico, che ti esortava a raccontare la storia degli ombrelli. Ce ne parleresti?
All’età di 10-12 anni, avendo avuto sempre la passione del fuoco, mettevo da parte le aste degli ombrelli, in modo tale da poterle utilizzare nel seguente modo: una mazzetta da muratore, quale incudine, un martello da calzolaio per percuotere le aste di ombrelli e modellarle sciogliendo delle candele o in mancanza dei lumini, così da trarne lance per gli archi. E a lavoro finito si aggiungeva, qualora ci fosse una malcapitata gallina, una sua piuma.
Cos’è quella statua, che si trova nell’atrio dell’aula consiliare?
Si tratta di una mia ultima creazione, finita qualche giorno fa. L’ho battezzata “Vulcano”. Intanto, perché nella mitologia romana, viene rappresentato come il Dio del fuoco, della tecnologia e metallurgia. Inoltre… perché forgiato con spalle possenti e muscoli ben delineati, che ripropongono la perfezione di quanto uscisse dalle mani del mito grazie a ciò. La testa, più vicina ad una scatola cranica senza rivestimento, quindi brutta, ben si sposa con la vicenda, che narra della sua mostruosità. Ed inoltre come Vulcano nella sua fucina creò, quali aiutanti, degli automi, quindi la tecnologia. Poi l’indice ed il capo spinto in su, è il messaggio più importante: ovverossia, non soffermarsi alle debolezze somatiche, come fece persino la madre del mito, ma andare oltre… all’essenza! Perché spesso i difetti si bilanciano con straordinarie abilità. Ed in ultimo, il mito trova collocazione nella nostra deliziosa Sicilia, sull’Etna.
Non perdi occasione per mostrare la tua identità siciliana.
Sono fiero di esserlo. Le mie creature rappresentano quello che i siciliani sono, cui spesso non è data occasione di esprimere. Amo la mitologia e quando posso mi delizio nel leggerla. E poi, secondo me, è legata anche all’ignoto, quello che c’è oltre i confini percettibili, pertanto popolata da paure, incubi, fervide fantasie laddove trovano spazio creature benefiche, malefiche e disabitate interiormente. Con “Vulcano” ho voluto proiettare degli stadi dello sviluppo della personalità umana e non, e rappresentare, così, delle caratteristiche umane positive.
Soddisfatti del racconto, ringraziamo e salutiamo l’artista, seppur non ami essere chiamato così.
Maria Pia Risa