Bisogna capire che ciascuno di noi è il proprio corpo di gioie e dolori ma, nello stesso tempo, è molto di più del suo corpo, è spirito, è cuore, è ricerca di significato. Insomma il dolore o si traduce in imprecazione e ribellione oppure si trasforma in amore. Questa è la proposta della Giornata che viene celebrata l’11 febbraio.
Poco più di vent’anni fa si è osato indire una Giornata mondiale del malato. Siamo alla XXII. Ha per titolo: “Fede e carità. Anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”. C’era bisogno di una Giornata? Incredibilmente sì. Lo è per una ragione che appare una sfida alla nostra cultura del piacere, della “superba” quanto meravigliosa ricerca medica, dei grandi risultati della medicina, degli interventi impossibili solo qualche decennio fa. In tutto il secolo scorso, piano a piano, ci eravamo abituati a pensare che la sofferenza, almeno quella fisica, poteva essere debellata. Anzi si rafforzava una convinzione di quasi immortalità, così da dedicare attenzioni spropositate al nostro corpo per conservarlo e abbellirlo.
Ma il dolore e la malattia, pur diventando più controllabili grazie alle conquiste della medicina e di una vita di benessere, almeno per il nostro Occidente, conservavano drammaticamente tutta la loro verità. Come tali inviano segnali “scortesi” proprio al nostro infinito desiderio di vivere. La malattia ci limita, ci depotenzia. Un semplice raffreddore, congiunto all’influenza, ci costringe a letto. Anche piccoli malanni, se ripetuti, se cronicizzati, ci tolgono energie da impiegare nelle nostre realizzazioni.
La malattia minaccia la nostra esistenza; ne annuncia tutta la sua precarietà; ne documenta la sua incredibile provvisorietà. L’esperienza lo conferma, non permette fughe se non momentanee. Nonostante tutti i nostri sforzi nel campo della ricerca e dell’assistenza, che del resto vanno incoraggiati, perché in termini cristiani diventano la cura che Cristo stesso ebbe per i malati, la malattia, e il dolore che l’accompagna, esiste ancora.
Che resta da fare? O maledire il fato, il destino di un essere umano che sogna un potere illimitato sulla vita senza possederlo, oppure capire che ciascuno di noi è il proprio corpo di gioie e dolori ma, nello stesso tempo, è molto di più del suo corpo, è spirito, è cuore, è ricerca di significato. Insomma il dolore o si traduce in imprecazione e ribellione oppure si trasforma in amore. Questa è la proposta della Giornata mondiale del malato. Il Dio cristiano si fa dono e amore in Cristo perché anche noi possiamo amare gli altri come egli ci ha amato fino alla croce, cumolo di tutti i dolori. Il dolore si ridimensiona, resta, ma unito a Cristo diventa redenzione. Non è più un insensato destino.
Il cristianesimo, più di popolo che di cattedra, più semplice che addottorato, ha percepito l’urgenza di prendersi cura dell’animo del malato. La cura pastorale non ha mai trascurato i malati e la preghiera, la visita ai santuari mariani, la vicinanza ad alcuni santi viventi come san Pio di Pietrelcina. Ha capito che la medicina nel suo sforzo di vincere la minaccia alla vita si preoccupa del male ma non del malato. Non è vero! Si obietterà. Suggerisce un pensatore laico, come Max Weber: “La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di essere vissuta. Tutte le scienze non danno questa risposta”. Essa si preoccupa come le altre scienze naturali di “dominare tecnicamente la vita”. Ma “se vogliamo dominarla o dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva abbia veramente un significato esse lo lasciano del tutto in sospeso”. In conclusione il mio medico in quanto “tecnico” della medicina mi cura ma non sa perché deve farlo. Il perché dipende da altri fini, dal senso che diamo alla vita. Dipende dall’amore appunto per le persone. “Quando ci accostiamo con tenerezza a coloro che sono bisognosi di cure, portiamo la speranza e il sorriso di Dio nelle contraddizioni del mondo” – annota Papa Francesco. Quel sorriso di Dio diventa tenerezza nella “Madre di Gesù e Madre nostra, attenta alla voce di Dio e ai bisogni e difficoltà dei suoi figli”.
Bruno Cescon