Cinema / Nella proposta americana della leggenda di Hercules l’abuso degli effetti speciali rivela l’occasione mancata

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Molti pensano che sia stato il cinema americano a dare vita a quel filone di film che hanno per oggetto storie ambientate nel passato storico-mitologico e per protagonisti aitanti cinemaeroi dotati di grande prestanza fisica. Il pensiero va subito al “Ben Hur” di Charlton Heston, famosissimo per la sua spettacolare corsa con le bighe. O allo “Spartacus” di Kirk Douglas, schiavo che si ribella per la libertà. E, in tempi più recenti, a “Il gladiatore” di Russel Crowe, che combatte contro la tirannia del dispotico imperatore Commodo. In realtà i primi a realizzare film di questo genere sono stati gli italiani, dando vita a un vero e proprio genere: quello del “peplum”. Già nell’età del muto si realizzano opere come “Quo vadis” o “Maciste all’inferno”, ma è con gli anni Sessanta che si girano pellicole di successo come “Ercole contro i figli del sole” o “Maciste l’uomo più forte del mondo”. Tanti i divi lanciati da questo genere: da Steeve Reeves, interprete di “Ercole e la regina di Lidia” o di “Romolo e Remo”, a Renato Rossini, in arte Howard Ross, fino al più noto Giuliano Gemma che esordì proprio con i “peplum” per poi diventare l’eroe Ringo degli spaghetti western e un divo anche del piccolo schermo.

Tutti recitavano in pellicole artigianali, dai fondali di cartapesta, ma capaci di far sognare il pubblico. La loro forza era proprio quella di emozionare gli spettatori con storie “colossali”, appartenenti al nostro bagaglio culturale e universalmente note. Oggi il cinema americano propone “Hercules”. La leggenda ha inizio e va alle radici di uno dei grandi protagonisti della mitologia: Ercole, il figlio del dio Zeus e della regina Alcmena, dotato di una forza sovraumana e famoso soprattutto per le sue 12 fatiche. Già protagonista di tanti “peplum” del passato, la pellicola diretta da Renny Harlin racconta la presa di coscienza del giovane Ercole riguardo la sua missione nel mondo come semi-dio. Naturalmente la pellicola fa un ampio uso degli effetti speciali, che qui sono declinati anche nell’utilizzo del 3D. Dunque, poco spazio ai dialoghi, ampio spazio all’azione.

Sullo stile del film “300”, di cui tra l’altro si aspetta a breve il seguito, infatti, “Hercules” cerca di rendere in maniera sempre più spettacolare le scene di lotta e di battaglia, moltiplicando i nemici, le difficoltà, le minacce che il giovane protagonista deve affrontare. Sembra di essere di fronte a un videogioco, in cui si passa, di livello in livello, ogni volta che una sfida è vinta. Non è un caso che si parli di stile da videogioco: la contaminazione, infatti, tra cinema e videogame è sempre più forte, in entrambe le direzioni. I videogame, cioè, assomigliano sempre di più a dei film, ne copiano le tecniche narrative e la costruzione del personaggio principale; i film copiano i videogame per lo stile “immersivo” degli effetti speciali, che proiettano lo spettatore al centro del vivo dell’azione e lo fanno sentire quasi il protagonista. D’altronde il cinema contemporaneo è un cinema “ibrido” che utilizza i linguaggi più disparati per creare un prodotto audiovisivo che sia sempre più “scioccante” per lo spettatore. Peccato che spesso, sotto questa meraviglia di effetti speciali sonori e visivi, si nasconda il nulla. E neanche il richiamarsi a un grande mito del passato come quello di Ercole può aiutare una pellicola a salvarsi dalla sua mancanza di sostanza. Un’occasione sprecata, laddove il cinema dovrebbe sempre comunicare qualcosa. E non solo rumore.

Paola Della Torre

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