Per eleggere un vescovo, per trovare la persona giusta con lo “sguardo dall’alto”, cioè con la “prospettiva di Dio” e la percezione della singolarità delle Chiese locali non serve un cacciatore di teste, né una società di ricerca di talenti. E fin qui Papa Francesco continua secondo tradizione a sottolineare che la Congregazione per i vescovi è impegnata a “identificare coloro che lo stesso Spirito Santo pone alla guida della sua Chiesa”.
Immediatamente il suo linguaggio cambia tono non nella voce – non sgrida per così dire come capitava a Giovanni Paolo II – ma nelle affermazioni così forti, così taglienti, che paiono un rimprovero o, comunque sia, uno sbarramento per evitare delle vere e proprie invasioni di campo dal mondo laico, politico, dal mondo degli arrampicatori nel modo di scegliere i candidati all’episcopato.
Secondo il vecchio metodo d’insegnamento sempre valido ha delineato la pars destruens, ossia gli scogli da evitare, le qualità che non fanno un buon vescovo. “Non ci serve – ha detto con la sua solita dolcezza, molto determinata quanto schietta – manager, un amministratore delegato di un’azienda, e nemmeno uno che stia al livello delle nostre pochezze o piccole pretese”.
E come se qualcuno avesse difficoltà a capire ha ragionato a voce alta: “Dobbiamo alzarci oltre e sopra le nostre eventuali preferenze, simpatie, appartenenze o tendenze”. Questi metri di misura o meglio d’idoneità per la scelta dei vescovi non possono “entrare nell’ampiezza dell’orizzonte di Dio, per trovare questi portatori del suo sguardo dall’alto”. Il vescovo è un “martire del risorto”.
Ma il Papa, esprimendoci con linguaggio preso in prestito dalla politica e dunque quasi irriverente per Bergoglio, senza ricorrere a qualche ammennicolo diplomatico va avanti schietto schietto e dritto dritto. “Pertanto, per individuare un vescovo, non serve la contabilità delle doti umane, intellettuali, culturali e nemmeno pastorali. Il profilo di un vescovo non è la somma algebrica delle sue virtù”.
E se qualcuno non avesse ancora capito aggiunge con un’analisi pungente e purificatrice per la vita della Chiesa: “Le scelte non possono essere dettate dalle nostre pretese, condizionate da eventuali ‘scuderie’, consorterie o egemonie”.
Non è il caso di speculare sulle sue parole cercando d’individuare a chi si riferisce. Conta il fatto che vuole che essendo affascinati da Dio sappiano affascinare il mondo, senza finire con l’essere “apologeti”, né “crociati”.
In positivo ecco la figura di un vescovo dotata di “solidità cristiana”, di una preparazione culturale che gli permette di dialogare con gli uomini e le loro culture. Ancora i vescovi necessitano di ortodossia, disciplina interiore ed esteriore, ortodossia e fedeltà alla Verità intera custodita dalla Chiesa; lo rende una colonna e un punto di riferimento la sua disciplina interiore ed esteriore. Necessitano ancora di capacità di governare.
Più di così non può chiedere. Lo avverte egli stesso. Ma è chiaro che domanda qualcosa di più al servizio pastorale dei vescovi. Chiede un cambio di marcia nella scelta. Non lo esplicita, ma non è neppure un’interpretazione malevola, quanto piuttosto una constatazione del suo immenso amore per la Chiesa.
Bruno Cescon