Ci sono, parlando di scuola, temi ricorrenti: ogni volta che spuntano sotto la luce dei riflettori, fanno discutere un po’ tutti. Appassionano, ci si divide, e poi tutto torna come prima, non appena si spengono (in fretta) le luci.
Uno di questi temi riguarda i cosiddetti compiti a casa. E i riflettori, in questo caso, sono quelli del rapporto Ocse Pisa che per il 2013 evidenzia come i ragazzi quindicenni italiani studino a casa molto più di altri, addirittura in media 9 ore a settimana, contro le 4,9 di media tra tutti i Paesi osservati.
Al dato puramente numerico – che pure risulta inferiore alla rilevazione precedente, sul 2003: media Ocse di 5,9 ore di compiti a casa e per gli italiani quasi 2 ore in più di adesso – se ne affiancano altri che fanno capire come lo studio a casa risulti efficace, perché i ragazzi che trascorrono più tempo sui compiti tendono ad avere migliori risultati nei cosiddetti test Pisa, che valutano le competenze matematiche, scientifiche e di lettura dei ragazzi. In particolare ogni ora di studio in più vale circa 17 punti a livello individuale nei test internazionali Pisa di matematica in Giappone e a Singapore (15 in Italia). Nello stesso tempo si rileva che studenti con un minor numero di compiti a casa – ad esempio finlandesi e coreani, che dicono di dedicare allo studio in media meno di tre ore la settimana – svettano a loro volta nelle classifiche sulle competenze scolastiche. E fanno meglio degli italiani “sgobboni”.
Un altro dato rilevato è quello per cui i compiti a casa avvantaggiano chi è già avvantaggiato. In sostanza, ne fanno di più quanti si trovano in condizioni socio-economiche migliori e presumibilmente hanno famiglie attente al percorso scolastico dei figli e in grado di seguirli maggiormente nel lavoro a casa: questi arrivano anche a 11 ore a settimana. Chi ha un background meno fortunato si ferma a 6.
Cosa si ricava da tutto questo? Anzitutto discussioni infinite sull’utilità dei compiti a casa e più in generale sul rapporto tra scuola e famiglia. Con qualche piega non di rado attenta al “diritto al riposo” degli studenti: studiano troppo, sono troppo impegnati. E di volta in volta spunta chi vorrebbe abolire per legge l’impegno a casa.
Le questioni possono appassionare. In effetti uno dei problemi più grandi riguarda l’impostazione generale del sistema scolastico, che occupa ad esempio più o meno tempo dei ragazzi negli istituti scolastici, organizzando la didattica e l’apprendimento in modi diversi. Il valore in sé del “compito a casa” – intendendo con questo il tempo di studio/esercitazione individuale, oltre le lezioni – resta tuttavia decisivo, soprattutto in un percorso di studi superiori, dove si tratta di acquisire autonomia, capacità critiche e di ricerca, di gestione del tempo e dei “saperi”. Certo, calibrare il “quantum” è importante, ma non è probabilmente solo una questione di medie Ocse, coinvolge il delicato equilibrio del processo di insegnamento/apprendimento. E coinvolge anche la questione famiglie: i compiti a casa inevitabilmente le coinvolgono (e le stressano) affidando loro responsabilità. Come e quanto coinvolgersi nel lavoro scolastico dei figli? Vale lasciarli fare da soli o intervenire fino all’assurdo di genitori che fanno i compiti al posto degli studenti?
Sotto traccia emerge la questione educativa generale, delle responsabilità condivise, prima ancora di quella legata all’efficacia dei compiti a casa. Vale la pena porsela, anche se per il solo tempo delle “luci accese” dall’Ocse.