Sri Lanka in presa diretta / Dopo lo tsunami nella terra del tè: una scuola e cento case per cento famiglie

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Conosco lo Sri Lanka, come si può conoscere un Paese, una Chiesa, un popolo visitato tre volte negli ultimi anni, a seguito di un prete che da trenta ci mette piede – e mani e cuore. Trent’anni di andate e ritorni, di terra d’Irpinia e villaggi srilankesi, di mescolanza di volti montanari e pescatori; comunanza di scosse e sobbalzi di terra, di quella che frutta nocciole e castagne come di quella intenerita dalle foglie di tè. Stessa fame di casa, di pane, di abbracci e l’antico paesello di Mercogliano si ritrova sulle sponde dell’oceano indiano, fra le capanne dei pescatori di Chilaw o nelle baracche dei villaggi di Kandy, a fianco di donne, uomini e bambini con occhi grandi e mani aperte.
Appena un anno dopo la tragedia dello tsunami (dicembre 2004), il maremoto che provocò – solo in Sri Lanka – oltre 40mila vittime, la mia prima visita sui luoghi dove, grazie alla fratellanza e alla condivisione, si stava ricostruendo la speranza. Nella forma di una scuola secondaria – che a distanza di otto anni conta più di 1.200 studenti – e che fu resa possibile per la generosità di tanti. Nella cerimonia di inaugurazione, improvvisando un saluto in mezzo a discorsi ufficiali, mi trovo a dire: “Mai avrei pensato che parole accorate di appello e di soccorso potessero mettere pietra su pietra. Parole fondate su quelle del Signore: qualunque cosa avete fatto a questi piccoli, l’avete fatta a me”.dopo tsunami (760 x 570)corretta
La solidarietà ha preso anche la forma di cento piccole case per cento famiglie di pescatori. A pieno titolo coinvolte le Chiese locali, i suoi vescovi, i suoi preti, i suoi laici. Le case del dopo-tsunami seguono quelle di “Samagigama”, “Villaggio Concordia”, che risale agli anni Ottanta – allo scoppio della guerra civile tra cingalesi e tamil – e voluto da padre Iannaccone, un gesuita ora scomparso, e da don Giuseppe, il parroco di Mercogliano. Le case distribuite equamente fra cristiani, buddisti, indù e musulmani. Un esempio per tutta la nazione; ne parlarono anche i giornali, sempre distratti a cogliere i segni del bene.
In terra di miseria, quando non si riceve un aiuto che ti sollevi da terra, non ce la fai a venirne fuori. Tante famiglie di pescatori, senza nemmeno la barca, a servizio perenne di piccoli padroncini. Se lavorano e la rete si riempie, si mangia. Altrimenti quel giorno si salta il pasto. Niente case, solo capanne precarie e fragili che un’onda anomala può spazzare via. Queste famiglie sono state aiutate a rialzarsi. Hanno avuto una casetta dignitosa, un pezzo di terreno, delle reti nuove, e I figli possono andare a scuola!
La “perla dell’Oceano Indiano” ha lunghissime spiagge ombreggiate di palme, coste battute da venti e adorate dai surfisti, danze e costumi antichi e pittoreschi, processioni di elefanti e grandi templi con enormi Buddha, da visitare nei giorni di luna piena, giorni di grande festa, ogni mese. Sta appena uscendo da trent’anni di guerra civile; miseria e violenza hanno prodotto il doppio delle vittime dello tsunami!
Nei canali di Colombo trovai un altro gigante della carità, p. Michele Catalano, ultraottantenne (anche lui scomparso qualche anno fa). Un grande uomo, capelli bianchi e sguardo dolce e sorridente. Aveva compiuto il sessantesimo anno di missione in Sri Lanka. Il suo quartiere generale era poco più di una capanna fra le mille dei canali di Colombo. Costruiti dagli olandesi nel 17° secolo per portare spezie e mercanzie all’interno, furono poi abbandonati e trasformati in discariche all’aperto. Di tutto, uomini, donne e bambini compresi.
La terra del tè, colline dolci e infinite ricoperte, come vello di un agnello, da milioni di tenere foglioline verdi degli alberelli di tè. Le donne perse nei filari, simili a formiche colorate, cariche dei pesanti sacchi di tela, silenziose come monache, strappano veloci i germogli e sembrano accarezzarli. Un vecchio, in un villaggio, mi dice: “Siamo i più poveri, noi raccoglitori di tè. Veniamo da due secoli di colonialismo. La vostra solidarietà ci fa sperare e la fede ci sostiene e ci tiene uniti. Il futuro? Ho un figlio in seminario e alcuni nostri giovani studiano all’università. Ci sembra un segno di speranza”. Il seminario, già. Perché qui ci sono diocesi, seminari, religiosi. A Kandy, l’antica capitale, il seminario maggiore, filosofico e teologico. Sono 120 i giovani studenti di teologia. Mi chiedono alcune parole. “Noi non siamo gli occidentali generosi che vengono a fare l’elemosina, ma il segno di Chiese sorelle che incontrano altre Chiese sorelle. Quello che ci scambiamo, fraternamente, è lo stesso dono: il Vangelo. Il Vangelo è il solo debito reciproco”.
Sì, conosco un po’ lo Sri Lanka; come si conosce ciò che si ama. E ora Papa Francesco vi ha messo piede. Anche lui missionario umile, come il nuovo e primo santo srilankese, Joseph Vaz che, pur di entrare in Sri Lanka e annunciare il Vangelo, scelse la sola via allora possibile in piena persecuzione calvinista: farsi schiavo pur di portare un conforto sotterraneo alla comunità perseguitata. La Chiesa di Sri Lanka non è da terzo mondo; ha semi pieni come quelli dell’inizio.

Angelo Sceppacerca

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