Le atrocità dello Stato Islamico (Is) non sembrano avere fine: dopo gli sgozzamenti, le lapidazioni, le morti crudeli di omosessuali, spie e ladri, ecco il pilota giordano, catturato il 24 dicembre scorso, arso vivo dentro una gabbia. Il supplizio del giovane Muadh Kassasbe ripreso da una videocamera assassina viene mostrato, come ennesimo atto di forza, nei suoi particolari più crudi e atroci e per tutto il tempo, 22 minuti. Una barbarie che nelle intenzioni dei miliziani dello Stato islamico deve fungere da monito e insegnamento per tutti coloro che si alleano con gli “infedeli”.
La dura risposta delle autorità giordane non si è fatta attendere. Dopo aver cercato per settimane di trattare con l’Is uno scambio di prigionieri – il pilota e il reporter giapponese Kenji Goro in cambio della donna kamikaze Sajida al-Rishawi – stamattina l’annuncio dell’impiccagione di alcuni jihadisti tra cui Sajida al-Rishawi e Ziad al-Karbouli. Condanne a morte emesse per rispondere alle pressioni dell’opinione pubblica scioccata dal video. È la violenza che si avvolge su se stessa senza lasciare vie di uscita, la replica simmetrica della vendetta. È la fotografia, scura, di una guerra globale scatenata dal terrorismo di matrice islamica che non lascia fuori niente e nessuno, dall’Iraq alla Siria, dalla Nigeria alla Libia, passando per i Paesi del Golfo, gli Usa, il Pakistan, l’Afghanistan, fino alla Francia e al Belgio nel cuore del Vecchio Continente.
Per evitare che questo rogo divampi ancora di più non basta la risposta militare, come il campo sta ampiamente a dimostrare. Occorre isolarlo attivando altri tipi di risposte sul piano politico, economico, culturale, sociale e religioso. Non sono più ammesse connivenze e complicità e soprattutto rappresaglie dal sapore di vendette.