Cardinali di periferia – 2 / “Io ero un possibile delinquente. E invece il buon Dio aveva un altro progetto”

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Mons. Edoardo Menichelli, uno dei venti nuovi cardinali

L’arcivescovo di Ancona-Osimo, Edoardo Menichelli, uno dei 20 cardinali che sabato riceveranno la “berretta” dal Papa, si racconta: “A undici anni sono rimasto senza genitori, a dodici anni ho dovuto abbandonare la scuola per andare a lavorare. E indovini che mestiere ho fatto? Il pastore”. Una giornata accanto a un pastore che conosce l’odore delle sue pecore, la loro testardaggine e la loro mitezza.

Mons. Edoardo Menichelli, uno dei venti nuovi cardinali
Mons. Edoardo Menichelli, uno dei venti nuovi cardinali che sabato riceveranno la “berretta”

 

“Adesso le dico una cosa che non ho mai detto a nessuno: a undici anni sono rimasto senza genitori, a dodici anni ho dovuto abbandonare la scuola per andare a lavorare. E indovini che mestiere ho fatto? Il pastore”. Comincia con una confidenza, davanti a una tazza di latte, la mia giornata “a tu per tu” con l’arcivescovo di Ancona-Osimo, Edoardo Menichelli, uno dei 20 cardinali che sabato prossimo riceveranno la “berretta” dal Papa. Quando ho chiesto a don Edoardo – è così che vuole essere chiamato, anche dopo il Concistoro, perché “non cambia niente” con la porpora – cosa volesse dire per lui l’invito di Papa Francesco a essere pastori “con l’odore delle pecore”, non mi aspettavo una risposta così, arrivata dopo una breve pausa come un fiume in piena: “Ho fatto il pastore: l’odore delle pecore lo so qual è, la testardaggine delle pecore so qual è… anche la mitezza delle pecore so qual è”. Un pastore innamorato del suo gregge: 75 anni, 50 di sacerdozio, 20 di episcopato di cui la metà trascorsi ad Ancona. Ma anche i 26 anni trascorsi a Roma sono ancora tutti lì: se li ricorda nelle telefonate che riceve, ma anche nei venti chilometri che facciamo fianco a fianco, mentre guida la sua Panda beige nel tragitto verso Osimo, dove andiamo a trovare la Lega del Filo d’Oro. Capisce di avere a che fare con una romanista, e ricordando il presidente Viola – “ogni tanto si ricoverava a Villa Mafalda”, io ero assistente lì”- mi dice con piglio sicuro: “Il problema della Roma sono i tifosi”.

“Io ero un possibile delinquente”. Come ha saputo della nomina del Papa? “Dalle suore”, risponde don Edoardo, le stesse – suor Silvana in testa, 83 anni e un sorriso contagioso – che ci hanno servito la colazione subito dopo la messa delle 7.30 in arcivescovado (silenzio dopo le letture, omelia telegrafica ma molto intensa posticipata alla fine: “il mondo i peccati li ripete spesso, l’importante è che per i peccati degli uomini ci sia sempre la misericordia di Dio”). “L’avevano sentito alla televisione e sono venute a dirmelo. Io gli ho risposto: ‘andate a cucinare che forse è meglio’”. Dopo, la meraviglia e la gratitudine verso Papa Francesco sono andate a braccetto, insieme però a un imperativo, lo stesso contenuto nella lettera che il Santo Padre ha inviato a ognuno dei nuovi cardinali: “Non cambiare!”. È questa, spiega l’arcivescovo, “la sinfonia che ritornava nei tanti biglietti ricevuti”. “Sembra che certi fatti rovescino l’esistenza, ma non è così”, puntualizza: “Semmai servono a farti entrare in una storia di gratitudine e di meraviglia”. “Se nella vita non hai una lettura di fede, entri nel frullino della vanità e ti maceri da solo”, dice don Edoardo spiegando come la sua nomina sia un’ulteriore spinta a “cercare qual è il tracciato di Dio”. “Io ero un possibile delinquente”, confessa quasi a bruciapelo guardandomi dritto negli occhi: “lo dico sempre ai ragazzi. A 11 anni ero senza genitori. C’è stato un disegno del buon Dio che attraverso percorsi difficili mi ha portato là. Il buon Dio ci disegna la vita, dà una trama, come una maglia. Se non capisci che per Dio sei una meraviglia così come sei, diventi un manichino”.

Il Messaggio per la Quaresima “in diretta”. Sono le 10, dopo una scorsa alla posta con il segretario, don Carlo, e il disbrigo delle pratiche più urgenti con il vicario, don Roberto, il cardinale decide di dettare il Messaggio per la Quaresima a Marino Cesaroni, l’addetto stampa nonché direttore del quindicinale diocesano “Presenza”. Io assisto in diretta, in quasi 25 anni di lavoro non mi era mai capitato di vedere un presule concentrarsi con la testa tra le mani e – a dispetto delle continue interruzioni telefoniche – “scrivere oralmente”, all’impronta, un documento. “Non basta una ritualità fredda per salvare la vita ma è necessaria la tenerezza dell’amore di Dio… Posso suggerire – come si diceva una volta – qualche mortificazione, accanto alla sobrietà: liberarsi da ciò che occupa sempre cuore e mente, il fastidioso chiasso di parole e di immagini che tanto confonde la nostra vita”. A colazione, a proposito della sobrietà come antidoto alla crisi, aveva ammonito: “Il denaro non può essere allo stesso tempo la malattia e la medicina”.

Una Chiesa muta non serve. Per don Edoardo, “una Chiesa muta non serve: una Chiesa guerrigliera è antievangelica, una Chiesa profetica è quella che è nata dal cuore di Cristo, utile per la promozione umana e per l’evangelizzazione”. In giro, invece, c’è tanta “rozzezza” del cuore. Un esempio per tutti, la famiglia (il cardinale ha partecipato al Sinodo): “Tutti ne parlano, ma pochi la amano. Tutti chiedono tutto, ma sono pochi quelli che danno qualcosa, compreso lo Stato. La scelta di Papa Francesco di convocare il Sinodo ha costretto tutti a ficcare l’occhio e il cuore su questo tema”. Ci vuole “vicinanza, sostegno, accompagnamento”: le famiglie chiedono accoglienza, “ci siamo messi su questa strada ma il cammino è ancora lungo”.

Non possiamo pretendere di formare dei cristiani se prima non ci sono gli uomini”. È una sana lezione di realismo cristiano, quella del cardinale: “Prima c’è l’uomo e poi la fede, sennò la fede diventa un rivestimento”. Lo devono avere avvertito gli ospiti della Lega del Filo d’Oro di Osimo, in festa per i 50 anni di attività: dal loro mondo speciale “accerchiano” quest’uomo dall’altezza imponente che si china su di loro per chiedergli “sei felice?”, fare carezze e stringere mani. “Cosa ha imparato dalla sua gente?”. “Che c’è in giro tanta bontà – mi risponde – e che bisogna fidarsi del buon Dio. E la gente, questa fiducia, ce l’ha. Anche nel mistero grande della sofferenza”.

dall’inviata Sir ad Ancona, M. Michela Nicolais