Passa dall’Ucraina alla Grecia e sfocia nel Mediterraneo, marcando un confine tutt’altro che nitido tra guerra e pace, tra economie solide e altre sul filo del default, fra l’Europa dell’integrazione comunitaria e i Paesi che, in Asia e Africa, di fatto non hanno mai imboccato la via dello sviluppo e oggi sono preda di povertà, conflitti e migrazioni di massa.
Esiste una nuova “cortina di ferro” in Europa che, come quella tragicamente nota del passato e rimossa dalla storia nel 1989, taglia in due il continente. Una divisione non sempre netta ma non meno profonda, spesso luttuosa, comunque diversa dal passato. La linea di demarcazione di un tempo si frapponeva tra Europa dell’est e dell’ovest, fra le democrazie di stampo occidentale e i regimi comunisti, le prime sotto l’ombrello protettivo degli americani, i secondi accodati alle direttive dell’Unione sovietica. Oggi la nuova “cortina” passa dall’Ucraina alla Grecia e sfocia nel Mediterraneo, marcando un confine tutt’altro che nitido tra guerra e pace, tra economie solide e altre sul filo del default, fra l’Europa dell’integrazione comunitaria e i Paesi che, in Asia e Africa, di fatto non hanno mai imboccato la via dello sviluppo e oggi sono preda di povertà, conflitti e migrazioni di massa.
La nuova impalpabile muraglia si scorge nelle pieghe dei negoziati di Minsk, dove Ucraina, Russia, Francia e Germania (le ultime due potenze europee, che si sono autoassegnate il diritto di parlare a nome dei 28 Stati dell’Ue) hanno cercato una via d’uscita accettabile per porre fine alla guerra che da mesi e mesi si combatte nelle regioni orientali ucraine, sulle quali Mosca intende mettere le mani.
Ma la “cortina” si scorge anche in Eurolandia: con la Grecia costretta a fare i conti con una situazione finanziaria, sociale e occupazionale disperata, la necessità di ottenere altri fondi dalle casse dell’Ue, della Bce e del Fondo monetario internazionale, ma costretta, per ragioni di politica interna, a fingere sicurezza. Così da irritare gli stessi Paesi che finora, nel bene e nel male, hanno consentito ad Atene di tirare avanti, nella speranza di riprendere fiato per far ripartire l’economia e rimettere in moto il sistema-paese.
E come non vedere, nuovamente, quella “cortina” che, attraverso il Mediterraneo, segna la distanza tra l’Europa da una parte e i Paesi del nord Africa, del medio Oriente e dell’Asia interna dall’altra? Le migrazioni massive che giungono sulle spiagge italiane e maltesi, che premono alle frontiere della Spagna e della stessa Grecia, sono la testimonianza di un mondo globale, interdipendente, con fenomeni demografici, economici, culturali che non hanno trovato una corrispondente capacità regolativa nelle istituzioni, siano esse nazionali, regionali o internazionali.
Così che l’Ucraina e la Russia proseguono la guerra nonostante gli appelli del mondo; la Grecia, col volto spavaldo di Tsipras, pur bluffando invoca aiuto e nessuno tende la mano senza la certezza di nuovi impegni; e i Paesi mediterranei dell’Europa continuano ad accogliere profughi e disperati (quando non sono costretti a ripescarne i corpi in mare) senza che gli altri Stati del Vecchio continente muovano un dito.
In questa lettura forse cupa della realtà, in verità non mancano i tentativi di trovare delle soluzioni sagge e concrete; non mancano gli attori in campo per ricostruire la pace in Ucraina, per ridare speranze al popolo greco, per aiutare i Paesi europei più esposti verso le “frontiere esterne” dell’Ue. Al vertice di Minsk si è quanto meno intravista la volontà di far tacere le armi ucraine e russe. L’Eurogruppo dell’11 febbraio non ha portato una soluzione al caso-Grecia, ma una nuova partita negoziale è già fissata per il 16 febbraio. Per il problema delle migrazioni (Triton, Mare Nostrum…) è in calendario un incontro specifico a fine mese. E il summit informale dei capi di Stato e di governo di oggi a Bruxelles toccherà tutti questi temi, oltre a quello della risposta comune al terrorismo. Ciò che non dovrà venir meno, però, in tutti questi casi, sarà la volontà esplicita, reiterata, condivisa, di trovare accordi risolutivi.
Ieri il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, parlando degli esiti della riunione, ha giustamente affermato: “Serve prima una base comune politica, poi gli esperti potranno lavorare a una soluzione tecnica”. Ciò vale sia per la stabilità economica e finanziaria della Grecia, come per la pace nell’est europeo, per una risposta congiunta ai fenomeni migratori e per tutte le altre sfide che l’Europa ha di fronte oggi. La politica, dunque, resta al centro della scena. Con i suoi protagonisti, le sue istituzioni, le sue liturgie, le trattative, le regole, gli accordi (al rialzo) piuttosto che i compromessi (al ribasso). È ancora tempo di credere alla politica. Alla “buona” politica che abbatte muri e vecchie cortine e costruisce nuovi ponti.
Gianni Borsa