Più utilità, meno privacy. Che dire, dunque, di fronte a questo ingegnoso esempio di “tecnologia indossabile”? Sul piano dell’utilità, senz’altro il microchip sotto pelle supera in semplicità l’impiego di pin e password, promettendo di facilitare tutte le operazioni collegate a esso. Prevedibilmente, però, quest’iniziativa di modernizzazione ha fatto storcere il naso a tanti (dipendenti e non), dati gli evidenti rischi per la privacy personale connessi al suo innesto; il microchip, infatti, potrebbe essere in grado di monitorare spostamenti e attività di chi lo “trasporta”. A questi timori ha risposto, minimizzandoli, Hannes Sjoblad, di BioNyfiken: “Vogliamo essere in grado di comprendere questa tecnologia prima che le grandi aziende e i governi vengano da noi e ci dicano che tutti devono avere il microchip, quello dell’agenzia delle entrate, o di Google, o di Facebook. Poi saremo in grado di discutere del modo nel quale questa tecnologia verrà implementata in una posizione di maggiore conoscenza non solo lavorativa”.
La “distanza” tra uomo e macchina. Ma, forse, le perplessità più forti stanno su un piano ancora più profondo, a livello di significati antropologici. La tecnologia in genere è progettata e costruita dall’uomo come ausilio alle sue attività, è “il prolungamento del suo braccio”, l’amplificazione delle sue capacità operative. Essa, però, resta sempre uno “strumento” nelle sue mani, senza confusioni o commistioni. È bene perciò che rimanga intatta l’evidenza dell’incolmabile distanza (ontologica e valoriale) che esiste tra il soggetto umano e il suo “prodotto”. Non solo sul piano teoretico, quindi, ma anche a livello simbolico è saggio conservare e rappresentare questa abissale differenza, in ogni occasione applicativa. Solo in senso analogico e parziale, infatti, l’uomo “dialoga” con le macchine, in realtà le produce e controlla a senso unico (anche se le “istruisce” a dare risposte predeterminate). Il più sincero apprezzamento, dunque, per le facilitazioni operative che un microchip può realizzare, come per ogni nuova acquisizione del buon progresso tecno-scientifico. Ma posizionare un dispositivo sottopelle, quasi a mo’ di “protesi” integrata stabilmente nella propria corporeità, e per di più in grado (almeno potenzialmente) di tracciare e registrare i movimenti (e alcuni altri dati) dell’individuo, mettendoli così nella disponibilità di altri soggetti, ci sembra francamente “fuori misura” e, a livello simbolico, perfino “degradante”. No, quindi, a un’integrazione smodata uomo-macchina, neanche sul piano meramente simbolico. Va bene la “tecnologia indossabile”, ma… qualche volta il vestito è troppo stretto!