Un passo in avanti, e due indietro. Sta facendo discutere il caso scoppiato negli Stati Uniti dove Facebook ha deciso di chiudere i profili di molti sacerdoti. L’ultimo in ordine di tempo è stato quello di Peter West, o meglio di Father Peter West, un sacerdote americano che ha visto il proprio profilo bloccato perché – sostiene il social network – ha violato la policy dell’azienda. La sua colpa? Quella di aver inserito la parola “father” (padre) prima del proprio nome. Risultato: la sua pagina è stata temporaneamente bloccata e il suo profilo oscurato. Vicepresidente di “Human Life International”, padre West è rimasto incredulo quando sul proprio computer è apparsa la scritta: “Stai violando la nostra politica, disattiveremo il tuo account”.
Ma non è il solo ad essere incappato in questa spiacevole situazione. Come lui, tanti altri sacerdoti hanno sperimentato le “misure correttive” adottate da Facebook per chi non rispetta la sua “politica”. E mentre alcuni hanno deciso di aggirare l’ostacolo unendo nella stessa parola sia il termine “padre” che il nome di battesimo, altri hanno preferito protestare creando una pagina (su Facebook appunto) dal titolo “Dite a Fb di consentire ai sacerdoti cattolici di mantenere il titolo ‘padre’ nel loro nome” che ha raccolto quasi tremila “Mi piace”.
Per quanto insolita, però, la misura è perfettamente in linea con le norme antiabusi del social network, volte ad ostacolare l’utilizzo dei titoli professionali da parte degli utenti. Inoltre, proprio due giorni fa, l’azienda creata da Mark Zuckerberg ha aggiornato le proprie policy sui contenuti leciti, e lo ha fatto pubblicando un lungo post in cui ha elencato diritti e doveri dei propri iscritti. “Facebook è una comunità in cui la gente usa la propria identità autentica – si legge nel post – noi chiediamo alle persone di fornire il nome che utilizzano nella vita reale. In questo modo si sa sempre con chi si è connessi e questo aiuta a mantenere sicura la nostra community”. In pratica, padre West avrebbe dovuto astenersi dall’aggiungere al proprio nome anche il titolo religioso. Un eccesso di zelo, forse, ma casi come questo hanno attirato verso il social americano parecchie critiche. Se ci aggiungiamo che da qualche tempo Facebook consente perfino di scegliere il proprio genere, oltre al classico “uomo” e “donna”, allora il paradosso è completo. Perché, dopo aver aggiunto l’opzione “unione gay” fra gli status, adesso è arrivata anche l’apertura all’identità di genere. “É una contraddizione – ha commentato padre West – e ho sollevato la questione inviando una mail di protesta all’azienda. Ma non ho mai ricevuto risposta”. In effetti sono molte le perplessità che circondano le regole e le politiche sulla sicurezza dell’azienda californiana.
Lo sa bene quel professore di storia dell’arte di Parigi che, tre anni fa, si era visto bloccare il proprio account dopo aver postato un quadro del celebre pittore Gustave Courbet (“L’origine del mondo”). Il dipinto, che ritrae un iper realistico nudo femminile, era stato scambiato dal team di Zuckerberg per un’immagine pornografica. Morale: profilo bloccato e foto rimossa. Tutto finito? Nient’affatto. Perché il professore non si è dato per vinto e ha deciso di fare causa all’azienda americana. Così, due settimane fa, una sentenza del Tribunale di Parigi gli ha dato anche ragione, definendo “abusiva” la clausola che considerava soltanto i tribunali della California capaci di esprimersi su vicende legali di questo tipo. Facebook, è noto, applica una politica molto severa in materia di condivisione di contenuti pornografici e, proprio per evitare pasticci simili, Zuckerberg ha capito che bisognava fare chiarezza. Le nuove norme aprono sì alla nudità femminile, compresi quadri e pitture, ma non saranno ammesse esibizioni delle parti intime.
La nuova policy, però, non risolve la spinosa questione sulle immagini di violenza che circolano ogni giorno, specialmente quelle dell’Isis. “Facebook – si legge ancora sul sito – non consente i contenuti che incitano all’odio, ma attua una distinzione tra contenuti seri e meno seri. Non consentiamo la discriminazione delle persone in base all’etnia, alla religione o all’orientamento sessuale”. Ne sa qualcosa l’europarlamentare della Lega, Gianluca Buonanno, che nel corso di una trasmissione aveva definito i rom “feccia della società”. Facebook gli ha bloccato il profilo per 24 ore e lui, per tutta risposta, ha paragonato Zuckerberg al Califfo, minacciando una richiesta di risarcimento al social network per 10 milioni di euro. Forse a questa soluzione padre West non ci aveva pensato.
Francesco Morrone