“Essere o non essere, questo il problema…”, così nel lontano Seicento si struggeva Amleto nel suo dramma interiore, in quella Danimarca triste e tragica. Erano forse i primi segnali di una visione introspettiva dell’uomo che, davanti all’immagine speculare di se stesso, si interrogava su chi fosse e su cosa fare. Una tensione spirituale e intellettiva che ha investito non solo l’essere umano nella sua dimensione individuale e sociale, ma ha avuto un significativo riflesso anche nelle espressioni artistiche, che forse hanno addirittura precorso i tempi dell’era contemporanea.
All’inizio del Novecento un gruppo di artisti intuì che l’arte non poteva essere solo la rappresentazione mimetica e oggettiva della realtà, bensì doveva privilegiare un’analisi più ampia e complessa che avesse come riferimento principale la dimensione emotiva del mondo; aveva prevalenza cioè l’animo dell’artista, la sua coscienza soggettiva, le pulsioni interiori… l’IO. Parliamo di quel particolare movimento filosofico e artistico nato intorno al 1905 in Germania (Die Brücke) e Francia (Fauves) e che, forse in opposizione all’Impressionismo, prese il nome di Espressionismo.
Come per la pittura impressionista anche la rivoluzione figurativa espressionista partiva anzitutto da una rivoluzione del colore, ma con una connotazione totalmente diversa: alle classiche stesure cromatiche tenui e leggere, i pittori fauves e della brücke opponevano colori connaturati da toni intensi e tinte fortissime, che si stagliavano su figure piatte e bidimensionali, al limite dell’antigrazioso. I gialli accessi, i rossi infuocati, i verdi pastosi e densi, i blu cobalto e i neri scuri come la pece furono la codifica cromatica di un grido di liberazione dalla sofferenza, dal disagio esistenziale e allo stesso tempo significavano l’esaltazione della spontaneità dello spirito contro la materia. Anche i soggetti delle opere, benché recuperati da un repertorio comune, come le città o i paesaggi o le figure umane, erano però scevri di quell’aspetto e quella dimensione edificante e distensiva, soprattutto nella corrente espressionista tedesca.
Ernst Ludwig Kirchner, l’artista più significativo del movimento e l’anima del gruppo della Die Brücke, privilegiò le scene metropolitane. Ben distanti dalle entusiasmanti rappresentazioni futuriste, le città di Kirchner sono luoghi claustrofobici, disseminati di strade dall’andamento repentino e case dalle forme spigolose, il tutto assoggettato a una stridente tricromia giallo-verde-blu, simbolo dell’estraniamento dell’uomo moderno da un ambiente privo di coesione affettiva. Altro tema ricorrente della pittura espressionista fu quello della figura allo specchio, estrema sintesi dell’individuo sempre più chiuso nella sua solitudine e nella sua impenetrabilità. Ma numerosi furono anche i temi religiosi, sintomi di una ricerca sovrannaturale di se stessi, che porta alla ricerca di Dio. Ne sono un tipico esempio i quadri del tedesco Emil Nolde, che si caratterizzano per la scelta di temi misticheggianti e traducono in immagine l’inquietudine spirituale di tutta una generazione, ma al tempo stesso rappresentano la personale denuncia dell’artista contro le idolatrie moderne. “La vita di Cristo” del 1912 (Seebüll, Nolde Museum) è un enorme retablo, un recupero in chiave moderna di un’ antica tradizione figurativa medievale; un’opera dal forte impatto emotivo per la drammaticità e tensione spirituale che lega le varie scene, dove le forme estremamente semplificate dei personaggi soggiacciono ad una gamma cromatica accesissima e struggente.
Il gruppo della Die Brücke ebbe vita breve, nato nel 1910 si sciolse già nel 1913, così come i Fauves francesi, ma il messaggio espressionista e le loro opere divennero paradigma di un’arte diversa, gli artisti avevano scoperchiato il vaso di pandora dell’animo umano, avevano aperto un ponte tra il mondo interiore e il mondo esteriore.
Adolfo Parente