Se il passato è una terra straniera

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 “Non c’entra l’intelligenza, non c’entra la testa, è qualcosa che ti chiama, qualcosa che parte da qui”. A queste parole padre Richard Zabala fa il gesto di strapparsi il cuore e lanciarlo lontano, verso il mare che in fondo alla piazzetta si infrange sugli scogli. È in Italia dal 1987, dopo molti anni trascorsi a Palermo è poi approdato sulla costa jonica, dove oggi è parroco nel borgo marinaro di Torre Archirafi (Ct). Parla del richiamo della terra, del desiderio che ogni tanto prende tutti quelli che sono stati costretti a lasciare il proprio Paese, di come sia dilaniante e ineluttabile quella nostalgia dei luoghi più intimi, di casa. Qui i filippini come padre Richard sono moltissimi, arrivati soprattutto negli anni Ottanta, ma è praticamente impossibile conoscerne il numero esatto. Nella nostra costa ci sono alcuni nuclei particolarmente numerosi che vivono tra Giarre e Riposto e lavorano soprattutto nell’assistenza agli anziani, vivono in comunità e si frequentano maggiormente tra loro, anche se i loro figli vanno regolarmente a scuola, all’università e in palestra.

 “Ero infermiera a Manila, ma qui i nostri titoli non valgono”, racconta Ruth Espiritu, 41 anni, e chiede aiuto alla figlia minore, la quindicenne Leja, per qualche parola che non riesce a ricordare. Ma nessuno, qui intorno a me, parla in filippino: anche quando non capiscono le mie domande si aiutano in italiano, per non farmi sentire esclusa. E loro, si sono mai sentiti esclusi?  “Qualche settimana fa – racconta Ruth – ero in un negozio con mio figlio Kevin, che ora ha diciotto anni e si è diplomato al liceo scientifico. Ho chiesto di vedere dei pantaloni: la signorina ci ha guardati e poi se n’è andata senza dire una parola. Mio figlio mi ha detto ‘mamma, andiamocene'”.

 Al di là di tutto, “l’integrazione è ottima – spiega p. Richard – anche se non tutti riescono a identificarsi nella realtà religiosa nella quale vivono. Fino al 2008 nel duomo di Giarre la messa veniva celebrata nella nostra lingua. Prima la comunità era più compatta, ormai siamo integrati, ognuno ha il suo quartiere, va nella sua chiesa, dal suo parroco”. A mancare di più è la famiglia, “la vita qui è molto faticosa, però ci vogliono bene e ci stimano, perché puliamo una casa come se fosse la nostra, accudiamo un’anziana come se fosse nostra nonna”. Ciò che colpisce di più ascoltandoli parlare è la concezione dichiaratamente provvisoria della loro permanenza: anche se vivono qui da vent’anni e rimarranno per altrettanti, prima o poi vogliono tornare a casa tutti. O quasi.

 Orlando Sebastian è stato uno dei primi ad arrivare, nel 1983. Aveva diciotto anni ed era clandestino: “Avevo paura – ammette – però il pensiero di aiutare la famiglia, i miei genitori, mi ha dato coraggio. Appena mi hanno messo in regola, per prima cosa sono tornato a casa per due mesi per abbracciare i miei genitori e i miei amici”. Oggi ha 46 anni, vive con tutti i suoi fratelli, sorelle e nipoti: sono circa trenta in famiglia. Non tornerà stabilmente nel suo Paese perché ormai si trova bene in Italia. “Ho vissuto 27 anni qua, più a lungo che nelle Filippine”. Anche se non è stato sempre facile, non si è mai pentito di essere venuto: “Sono diventato forte, e se non ho avuto grandi difficoltà – spiega – è perché abbiamo la stessa religione: la fede mi ha aiutato tanto, noi non siamo nessuno senza Dio”. La migliore scoperta è stata la gente: “Siete amichevoli, mi sono sentito uno di voi. Mi mancano moltissimo i miei compagni d’infanzia, invidio i miei amici perché loro sono felici lì, ma penso sempre che quello è il mio passato”. Per Orlando, e per tutti loro, il passato è davvero una terra straniera.

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