A 14 anni pesava solo 11 chili. Il governo continua ad attribuire la responsabilità del decesso a ”cause culturali”, legate alle sue origini e alla sua comunità di appartenenza. I dubbi, però, si affollano e fanno breccia nell’opinione pubblica. Il dato allarmante: il deficit nutrizionale – secondo i dati del ministero della Sanità – provoca la morte di una persona ogni dieci ore
La morte, nella provincia argentina di Chaco, di un bambino disabile appartenente all’etnia aborigena “qom”, che aveva 14 anni e pesava undici chili, ha scosso nelle ultime ore l’intero Paese. Non si parla di altro. Il tema del deficit nutrizionale che – secondo i dati del ministero della Sanità – nell’Argentina provoca la morte di una persona ogni dieci ore, si è imposto sulle prime pagine di tutti i quotidiani e l’indignazione generale ha invaso le reti sociali.
Un bambino malnutrito. Il governo nazionale continua a negare che la morte di Oscar Sanchez – questo il nome del bambino – possa essere ritenuta una conseguenza della denutrizione. Sostiene che la sua malnutrizione era associata alle malattie di cui soffriva (idrocefalia, paralisi cerebrale e tubercolosi) e che si trattava di un paziente a rischio seguito dai servizi sanitari dello Stato e, di conseguenza, regolarmente controllato. Di certo c’è, invece, che il suo trasferimento a un ospedale della città di Castelli – nemmeno al miglior centro sanitario della capitale della provincia – è stato ordinato appena una settimana prima del suo decesso, quando il peggio era ormai inevitabile. È stato lo stesso direttore dell’ospedale di Villa Río Bermejito, Ricardo Chunga, ad ammettere che “già da un mese il bambino era alimentato dalla famiglia solo con latte e pertanto malnutrito” e che “avevano fatto ricorso alla medicina alternativa”.
Domande senza risposte. Le domande sono tante. A che cosa è servito, allora, il monitoraggio statale del caso? Perché non è stato ordinato prima il trasferimento del paziente alla città di Resistencia, capitale della provincia, dove alla fine è deceduto? Gli operatori sanitari, che secondo il governo lo visitavano una volta la settimana, non hanno rilevato il suo peggioramento? E a queste, altre se ne aggiungono, in conseguenza delle dichiarazioni che vengono dal mondo della politica e che sembrano volte a mettere distanza tra la gestione pubblica e i complessi problemi delle etnie aborigene. Nel bel mezzo della campagna per l’elezione a governatore che avrà luogo entro dieci giorni, Jorge Capitanich, che è stato governatore della provincia di Chaco e anche capo di gabinetto del governo centrale di Cristina Kirchner fino a poco tempo fa, insiste pubblicamente nel sostenere che “la morte di questo bambino è dovuta a cause culturali”. Anche l’attuale governatore della provincia di Salta, Juan Manuel Urtubey, aveva parlato, lo scorso gennaio, del cosiddetto “problema della diversità culturale” quando si era diffusa la notizia di quattro bambini morti per denutrizione nella sua provincia, nel breve tempo di cinque mesi. È possibile che la diversità culturale, il dialetto astruso proprio di quelle etnie e le loro abitudini ancestrali servano ancora da scusa per la classe politica per non prendersi cura di queste popolazioni e principalmente dei loro bambini? Più che parlare di “cause culturali” altrui (in questo caso dei “qom”), non sarebbe meglio indagare sulle “cause culturali” delle politiche non riuscite finora ad evitare il deficit nutrizionale dei bambini o a garantire loro una buona cura medica?
Politiche insufficienti. Dalla ricerca sulla situazione dell’infanzia in Argentina, presentata il mese scorso dall’Osservatorio del debito sociale della Pontificia Università cattolica argentina, emerge che, pur ammettendo che le iniziative governative di maggior rilievo dell’ultimo decennio siano state dedicate all’infanzia – attraverso il cosiddetto contributo universale per i figli (“Asignacion Universal por Hijos” ) – si tratta lo stesso di una politica che continua ad essere insufficiente, sia per garantire la piena scolarizzazione sia per sradicare la fame, la povertà estrema e il lavoro dei minorenni. Rimane dimostrato – come ha spiegato la sociologa Ianina Tuñon nel corso della presentazione di quel Rapporto – che di fronte all’infanzia, uno dei settori maggiormente esposti ai cicli economici recessivi, le politiche di incremento degli incassi, anche se necessarie, non bastano a supplire l’azione dello Stato nel miglioramento dell’habitat, l’assistenza sanitaria e l’educazione.
Maribé Ruscica