Don Jean Claude Kunangidi, sacerdote congolese, dal 2009 alla guida della comunità parrocchiale ricorda quelle ore terribili e gli sforzi della comunità per ripartire. Con i fondi stanziati dalla Cei si è provveduto a sistemare la canonica e ad acquistare un immobile nei pressi della chiesa. Ma i ritardi dell’intervento pubblico sono vistosi
L’hanno chiamata “la strada della vergogna”, e bisogna vederla per capire. Solo così, inerpicandosi lungo il sentiero lasciato libero dalla frana del 2009, si può toccare con mano il disagio di un paese che stenta a riprendersi. Siamo a Scaletta Zanclea, in provincia di Messina, dove il primo ottobre di sei anni fa una tremenda alluvione provocò morte e distruzione, lasciando sotto il fango – tra qui e i vicini centri di Giampilieri, Briga e Altolia – 31 cadaveri, più 6 dispersi mai ritrovati. Da allora, diverse opere sono state realizzate per mettere in sicurezza l’abitato, ma la strada comunale per raggiungere il camposanto resta ancora interdetta al transito. Troppo pericoloso attraversarla. Eppure gli scalettesi lo fanno, disattendendo l’ordinanza d’interdizione. La transenna con il cartello di divieto resta così miseramente poggiata a terra, perché non si può negare un fiore ai propri morti.
Il ricordo dell’alluvione. Parte da quest’immagine don Jean Claude Kunangidi, sacerdote congolese, dal 2009 alla guida della comunità parrocchiale di Scaletta, per raccontare come questo piccolo paese ha ripreso a vivere dopo il trauma subito. Arrivato in provincia di Messina pochi mesi prima dell’alluvione, ha condiviso con il vicario foraneo don Vincenzo D’Arrigo il difficile compito di sostenere gli abitanti nella ricostruzione. “Nel pomeriggio di quel primo ottobre – ricorda – avevo celebrato Messa nella chiesetta di Scaletta superiore, nella parte alta del paese, e stavo per scendere a Scaletta marina. Sembrava un giorno come gli altri, anzi, c’era un caldo insolito per l’inizio d’autunno; nel giro di poco si scatenò una pioggia torrenziale, un vero e proprio nubifragio”. Presto s’interruppero l’energia elettrica e le comunicazioni telefoniche, mentre dalla montagna – resa fragile dall’abbandono delle coltivazioni e dalla mancanza di lavori di contenimento, in una zona ad alto rischio idrogeologico – cominciarono a staccarsi grossi massi e detriti. I torrenti s’ingrossarono, esplosero le condutture dell’acquedotto. Il convento delle suore salesiane, posto a valle vicino la chiesa Santa Maria del Carmelo e utilizzato come centro di aggregazione, venne invaso e cancellato dalla furia dell’acqua, come la piazza e le case adiacenti. Don Kunangidi quella sera non riuscì a rientrare, e trovò riparo a casa di alcuni parrocchiani, mentre don D’Arrigo si trovava nella vicina Alì. Solo il giorno seguente entrambi poterono raggiungere la chiesa, in gran parte sventrata: al suo interno era stato sbalzato – rimanendo miracolosamente illeso – un giovane travolto dall’onda d’urto. “Con nostra grande meraviglia – dicono i due sacerdoti -, notammo inoltre che il lume ai piedi del tabernacolo non era stato sommerso dal fango, ma si era adagiato sui detriti rimanendo acceso”.
Una comunità ferita. Nei giorni seguenti anche nella parrocchia cominciò l’opera di ripulitura e partì una gara di solidarietà che coinvolse la Conferenza episcopale italiana: con i fondi stanziati si è provveduto a sistemare la canonica e ad acquistare un immobile nei pressi della chiesa. Lì, ultimati i lavori di ristrutturazione, saranno spostate le attività pastorali e sociali prima ospitate nel convento distrutto, a partire dall’oratorio, che da sei anni è impossibile rimettere in piedi per mancanza di spazi. “Con grandi sacrifici – osserva don Kunangidi – portiamo avanti regolarmente la vita della parrocchia. Si susseguono le prove del coro che anima le celebrazioni, le riunioni dei ministranti e il catechismo per i bambini, quest’ultimo diviso in due turni, perché le stanze a disposizione sono troppo piccole per ospitarli tutti insieme”. Fuori da questa apparente normalità, però, si respira il senso di abbandono in cui versa la comunità scalettese, segnata dalla incompiutezza di talune opere di ricostruzione e dalla storica insufficienza della rete viaria: basta una pioggia più intensa perché la principale arteria di collegamento – la statale 114 – venga interrotta all’altezza del vicino Capo Alì per la caduta di materiale roccioso. A Scaletta le saracinesche dei negozi si abbassano; non tutti gli sfollati sono rientrati, e basta fare pochi passi oltre la chiesa per vedere la desolazione lasciata dalla valanga di fango del 2009. Alcune foto precariamente affisse su un muretto ricordano le vittime di quella tragedia. Lo sguardo si posa sul mare, con la sua calma rassicurante. Dietro, però, la montagna fa ancora paura. A Scaletta, ogni allerta meteo è un colpo al cuore.
Graziella Nicolosi