Emil Katti, medico chirurgo all’ospedale cattolico “Al-Rajaa” di Aleppo, la città martire siriana, racconta la sua “guerra” per la vita: “Curiamo tutti indistintamente, non chiediamo se sono civili o militari, se cristiani o musulmani. L’obiettivo è salvare la loro vita”. I suoi colleghi sono al 95% musulmani: “La religione non ci divide ma ci unisce. Solo così possiamo trasformare il male in bene”
Una guerra combattuta non con armi, razzi, bombe e mitragliette, ma con bisturi, garze, bendaggi, antidolorifici e anestetici, con strumenti diagnostici a rischio black out. Una guerra non per uccidere, fare morti, conquistare territori e spargere disperazione, ma per salvare vite, curare, possibilmente guarire, e spargere un po’ di speranza e di fiducia. È la “guerra” di Emil Katti, medico chirurgo all’ospedale cattolico “Al-Rajaa” di Aleppo, la città martire siriana, da lunghi mesi al centro di aspri combattimenti tra Governo, ribelli e Stato islamico. Il dottor Katti, che nei giorni scorsi ha partecipato a un convegno organizzato dall’Istituto di Scienze sociali “Nicolò Rezzara” di Vicenza in collaborazione con l’Università di Palermo, non ha truppe numerose da guidare. Con lui solo un manipolo coraggioso formato da un centinaio di suoi colleghi tra medici e paramedici, che lo seguono ormai da mesi in questo fronte di guerra tutto particolare rappresentato dal Pronto Soccorso e dalle corsie del suo ospedale. “Aleppo è allo stremo – racconta il medico che vi lavora da oltre 23 anni – un tempo era la città più popolosa della Siria, ricca con tante industrie. Oggi invece è piena di ferite provocate dalla guerra. Ferite che provocano dolore nella sua gente”. La vita ad Aleppo scorre tra mancanza di acqua – “recentemente siamo stati oltre due mesi senza” – e poca energia elettrica, “solo mezz’ora al giorno”, denuncia Katti. Le condotte di acqua e le centrali elettriche sono nelle mani dei ribelli, che le usano come armi contro la popolazione civile. Per questo “nelle chiese e nelle moschee sono stati realizzati dei pozzi per l’approvvigionamento idrico ma non bastano a soddisfare i bisogni. È inammissibile, l’acqua è un diritto, l’acqua è vita”. Ma la vita ad Aleppo sembra ormai non avere più nessun valore, così come la speranza. “Ogni giorno dobbiamo sperare di non essere colpiti dai razzi e dalle bombe. Così mentre aumenta la violenza, diminuisce l’umanità”.
Nonostante tutto ciò, il fronte nell’ospedale Al-Rajaa di Aleppo resta sempre aperto. “Queste sono le condizioni in cui prestiamo il nostro servizio medico. Mancando l’energia elettrica siamo costretti a usare i generatori elettrici che richiedono carburante, non sempre disponibile. Tuttavia si va avanti lo stesso”. Nel 2014 l’ospedale ha prestato cure a oltre 1.000 pazienti al mese. Ad Aleppo attualmente ci sono due ospedali pubblici funzionanti che servono gratuitamente la popolazione ma non sono sufficienti per curare tutti coloro che hanno bisogno. Ci sono altri ospedali privati che fungono da sostegno. I medicinali arrivano da Damasco attraverso l’unica strada libera e sicura, ma i bus per percorrerla impiegano anche venti ore. “Qui, nel cuore dell’inferno che è Aleppo, curiamo i malati cronici che arrivano, oltre che i feriti di guerra, colpiti da schegge e frammenti di razzi. Pazienti dializzati, con insufficienza respiratoria o cardiaca sono all’ordine del giorno e per grazia di Dio riusciamo a fare fronte ai bisogni. Curiamo tutti indistintamente, non chiediamo se sono civili o militari, se cristiani o musulmani. L’obiettivo è salvare la loro vita”. Al dottor Katti non manca la speranza, in fondo dice ridendo, “lavoro nell’ospedale Al-Rajaa che significa proprio ‘speranza’”. La fiducia e la speranza vengono non solo dalla fede, il medico è cristiano, ma anche dai suoi “colleghi, il 95% dei quali è musulmano. Siamo una grande famiglia – dice con orgoglio – e quando la situazione lo consente, ci ritroviamo insieme per consolidare i rapporti. La religione non ci divide ma ci unisce. Solo così possiamo trasformare il male in bene”.
Così mentre fuori si bombarda, si spara, si uccide e si muore, dentro l’ospedale di Al-Rajaa, di proprietà della Custodia di Terra Santa, medici coraggiosi cercano di strappare alla morte quante più vite possibile. “Non piangiamo perché siamo all’inferno ma cerchiamo di dare risposte a chi ce le chiede, ai malati e ai feriti”. Il medico non ce l’ha con quei medici – e sono tanti – che hanno lasciato la Siria per trovare lavoro e sicurezza in molti Paesi europei, Germania su tutti. “Come posso biasimarli? In fondo sono fuggiti perché qui manca sicurezza, stabilità, non ci sono le condizioni minime per lavorare. Io e gli altri miei colleghi abbiamo scelto di restare in Siria” afferma il medico che ha rifiutato offerte di lavoro dalla Francia. “Piangere non serve, non risolve i problemi. Abbiamo una guerra da vincere. Le nostre armi sono competenza, medicine, solidarietà, cure amorevoli e creatività. Abbiamo bisogno di uomini di buona volontà perché quando si fa il bene si costruisce la pace e con essa la giustizia. I siriani vogliono la pace e la fine delle ostilità. Tutti soffrono e chiedono di trovare una soluzione politica onesta, giusta, che soddisfi tutti. Dialogare con i terroristi di Isis o di Al Qaeda non è possibile perché non vogliono, ma l’opposizione moderata e il Governo possono trovare insieme una via di uscita alla guerra. È quello che tutti si aspettano in Siria e ad Aleppo, per uscire dall’inferno”.
Daniele Rocchi