La drammatica strage di Parigi e i successivi attentati sanguinari nel mondo a opera dei terroristi dello Stato islamico continuano inevitabilmente a occupare larga parte degli spazi di informazione televisiva e dei salotti di approfondimento informativo, oltre naturalmente alle prime pagine dei giornali. I tg spesso sono monografici, le reti all news propongono una sorta di grande diretta su Parigi e sugli altri luoghi delle stragi, con costanti collegamenti con gli inviati pronti ad aggiornare il pubblico sull’ultimo allarme, sui terroristi a cui si dà la caccia e sulle molte, moltissime manifestazioni della popolazione civile all’insegna della resilienza e di solidarietà.
Dopo la notte del 13 novembre, il presidente francese François Hollande ha dichiarato che la Francia è di fatto in guerra e questo termine – che negli ultimi tempi avevamo accantonato o declassato come un significato lontano – è tornato prepotentemente di attualità. Il linguaggio televisivo si è immediatamente adeguato alle metafore belliche, reintroducendo nelle narrazioni dell’attualità del momento tutti gli stereotipi classici di quello che è anche un vero e proprio genere narrativo.
Nella mediatizzazione dell’attuale situazione di tensione, gli attacchi dei terroristi sono sempre imprevedibili, feroci e sanguinosi, mentre le reazioni di quelli che un tempo si chiamavano “alleati” sono sempre pianificate, efficaci e capaci di far male soltanto ai cattivi. La realtà ci dice altro, restituendoci le immagini televisive e di decine e decine di morti che sono spesso bambini.
I comandi militari e i governi, dal canto loro, utilizzano la retorica di guerra secondo i propri scopi, si tratti di terrorizzare o rassicurare la popolazione, di indebolire psicologicamente il nemico o di mantenere alto il livello di all’erta fra le forze di polizia. Fra i presupposti indispensabili per qualsiasi intervento militare c’è l’identificazione di una “giusta causa” assoluta e indiscutibile, che renda inevitabile lo spiegamento di forze e l’attacco. È quanto è successo con i bombardamenti a tappeto che la Francia ha rovesciato sulla Siria per colpire i presunti covi dei terroristi colpevoli degli attentati di Parigi.
La retorica di guerra assegna al nemico un’identità precisa, per indirizzare in maniera univoca l’attenzione dell’opinione pubblica contro un preciso target e per indurre indirettamente a supporre che, annientato “lui”, si possa sconfiggere l’intero fenomeno di un terrorismo internazionale che invece è molto più articolato e per questo molto più pericoloso. In qualche modo si ricorre a una sorta di personificazione anche riferendosi allo Stato islamico, per il quale le sigle utilizzate sono sostanzialmente tre. “Isis” significa Stato islamico della Siria e dell’Iraq e rimanda al gruppo che nel 2004 si faceva chiamare Al Qaeda. “Isil” significa “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” e si riferisce alla regione intorno alla Siria. “Daesh” è l’acronimo di Dawla al-Islamyia fil Iraq wa’al Sham, che in arabo è l’equivalente di Isis (Stato Islamico dell’Iraq e della Siria), utilizzato anche da Hollande parlando dei “tagliagole del Daesh”. Per i sostenitori dello Stato islamico, è un “peggiorativo”, per chi parla arabo è sempre un termine negativo che viene utilizzato per indicare al contempo ostilità e ridicolizzazione, per i musulmani moderati è più sopportabile perché esclude dal movimento la componente strettamente religiosa. Per questo va usato: per cominciare, almeno nel linguaggio, a definire i terroristi per quello che sono.
Marco Deriu