Sul mensile Vita Pastorale di febbraio, in una nota politica, Luca Diotallevi, prendendo spunto dagli incresciosi fatti di violenza contro le donne, accaduti a Capodanno a Colonia, evidenzia come le politiche di integrazione debbano fare i conti con grandi limiti.
La violenza di massa contro le donne a Colonia e in altre città del Nord e del Centro Europa nella notte
di Capodanno, molto probabilmente a opera di persone provenienti dal Nord Africa e Medio Oriente, ha suscitato una reazione crescente. Si tratta di eventi meritevoli della massima indignazione e preoccupazione, oltre che di una reazione fermissima. Siamo stati tutti colpiti nella carne della nostra civiltà.
Gli eventi di Capodanno hanno messo in serio imbarazzo l’intellighenzia europeo-continentale, che – a malincuore – si è vista costretta a interrompere il comodo e redditizio mestiere di demolizione delle tradizioni particolari di queste società e anche di ciò che resta della loro struttura cristiana. Ancora ai primi di gennaio i vignettisti di Charlie- Hebdo hanno ricordato il primo anniversario della strage, di matrice islamista, mettendo in copertina un dio sanguinario e terrorista di fattezze palesemente cristiane.
Pian piano anche i più bigotti difensori delle convenzioni alla moda hanno dovuto cominciare a dare espressione alla convinzione, finora invece sbeffeggiata, che le politiche d’integrazione debbono conoscere dei limiti. Si dà integrazione sinché c’è una società che integra e – dato che niente è più particolare di una società – è capace d’integrare in quanto tiene fermi magari pochi, ma chiarissimi e presidiatissimi limiti.
Negando ogni limite non si fa integrazione, né tanto meno amicizia civile e mutualità. Semplicemente si torna alla giungla. Così, di fronte a violenze quali quelle di Colonia, anche quegli intellettuali sono tornati a parlare di limiti. Ma in che modo?
Gli opinion leaders di questa versione del politicamente corretto sono ricorsi alla nozione di “valore”. In queste settimane il tam tam è stato: esistono valori sui quali non si deve transigere. Una domanda però incombe. Quello di valore è un concetto adeguato a esprimere un limite oltre il quale la possibilità di un certo modo di convivere viene messa in discussione? La risposta è no. Quando ci si riduce a un appello ai valori, si è arrivati alla frutta. Si è in ritardo e non si fa altro che manifestare il veloce ridursi delle probabilità d’invertire il processo che si denuncia. A questi intellettuali basterebbe ricordare l’abisso di insuccessi insuccessi, e prima ancora di contraddizioni, in cui è precipitato il cattolicesimo dei “valori non negoziabili”.
I valori da soli non esistono, questa è la dura lezione. Essi non sono altro che una dimensione inseparabile delle istituzioni. Di istituzioni esistono tanti tipi (politiche, familiari, religiose, educative, economiche, ecc.). Tutte però hanno la caratteristica di essere un insieme di valori, certamente, ma inestricabilmente anche di norme e di conoscenze. Non solo: le istituzioni non esistono se non in presenza di organizzazioni in grado di governarle e difenderle. Dunque, se smantello le organizzazioni sociali (Chiese e imprese, università e famiglie, scuole e così via), se smantello norme e sanzioni, se annacquo e confondo ogni conoscenza, la società semplicemente si dissolve (e certamente non integra). Quando fatalmente arriva l’emergenza, appellarsi ai valori non solo è inutile e ridicolo, ma è esso stesso segno dell’intensità raggiunta dal processo che si vorrebbe contrastare.
Si dirà: e lo “Stato”? Non c’è pur sempre lo “Stato” a difendere i valori? Non basta lo “Stato”? No, non basta. Non basta, perché in una società appena un po’ complessa (figurarsi nella nostra!) solo una quota piccolissima di istituzioni lo “Stato” riesce a sostenere, e quasi nessuna da solo. Lo “Stato” e i suoi chierici, i sacerdoti della laicità e della versione statalista del politicamente corretto (inclusi molti cristiani di destra, di sinistra o di centro a seconda del momento), hanno fatto in vari modi piazza pulita di tutto quello che non era “Stato”. In Europa continentale lo “Stato” si è mangiata tutta la politica e poi, dopo qualche sincero tentativo in direzione opposta, è tornato a mangiarsi tutta la società (“Stato sociale”, “État providence”), a cominciare dal diritto. In questo deserto lo Stato non ce la fa più a presidiare i limiti oltre i quali la qualità civile della convivenza semplicemente crolla e viene calpestata e i suoi chierici non sono più capaci di pensare e di dire questi limiti. Intanto il pubblico, quello che un tempo erano i cittadini di una repubblica, si sfoga premiando indifferentemente la denuncia tagliente del bel film di Checco Zalone e la melassa tv di Don Matteo. Tuttavia, esattamente come l’appello ai valori, denuncia e nostalgia – pur rispettabili – non bastano a invertire la rotta.
Luca Diotallevi