La Domenica del Papa / Messaggio di Pasqua. Ripartire con più coraggio e speranza per costruire una cultura dell’incontro e dell’accoglienza

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C’è una immagine che in questo tempo di Pasqua Francesco utilizza per aiutarci a capire i giorni che stiamo755x491xDSC1989-755x491.jpg.pagespeed.ic.zSsE6uriB5 vivendo: la pietra rotolata, il sepolcro vuoto, le donne che lo annunciano.
Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca, aveva detto il Papa ai vescovi italiani a Firenze; e in questo cambiamento, la pietra di lato ci parla di cristiani che non devono chiudersi in se stessi per mancanza di speranza, terribile trappola, afferma, che mette al centro della vita solo i nostri problemi. Chiesa in uscita, che si rivolge a ogni uomo e a tutto l’uomo; che non ha paura e non cede all’oscurità. Solo l’infinita misericordia di Dio, dice Francesco, può darci salvezza “di fronte alle voragini spirituali e morali dell’umanità, di fronte ai vuoti che si aprono nei cuori e che provocano odio e morte”.
La pietra spostata, il sepolcro vuoto, ci parlano di una speranza che va oltre le nostre attese: “L’abisso della morte è stato varcato e, con esso, sono stati sconfitti il lutto, il lamento e l’affanno”. Pietro, che aveva negato per tre volte di conoscere il Signore, è il primo che corre verso il sepolcro dopo l’annuncio delle donne; è l’immagine dell’uomo che senza ulteriori indugi va verso quel luogo, verso chi, con il suo amore “ci rende ora partecipi della sua vita immortale e ci dona il suo sguardo di tenerezza e di compassione verso gli affamati e gli assetati, i forestieri e i carcerati, gli emarginati e gli scartati, le vittime del sopruso e della violenza”.
In questo triduo pasquale, il Papa parla delle tragedie dei nostri giorni, dai paesi dilaniati da conflitti, alle vittime del terrorismo. Un mondo “pieno di persone che soffrono nel corpo e nello spirito”, dice ancora Francesco, nel messaggio Urbi et Orbi, cioè alla città e al mondo. Non è solo un triste elenco dell’incapacità dell’uomo a vivere in pace, ma è invito urgente a cambiare il nostro modo di essere su questa terra. Sì, è vero, la Siria è un Paese “dilaniato da un lungo conflitto, con il suo triste corteo di distruzione, morte, disprezzo del diritto umanitario e disfacimento della convivenza civile”; il terrorismo continua a colpire e uccidere uomini, donne e bambini, in molte parti del mondo, “forma cieca ed efferata di violenza”. E non erano passate che poche ore dalle parole del Papa che in Pakistan, a Lahore, una nuova strage si aggiunge al lungo e triste elenco di attentati.
Ci chiediamo: ma cosa possiamo fare, di fronte a queste tragedie. La festa di Pasqua, ricorda Francesco, è occasione per manifestare la nostra vicinanza alle vittime del terrorismo, invito a non chiudere la porta a quanti arrivano sulle nostre coste e sulla loro strada “incontrano troppo spesso la morte o comunque il rifiuto di chi potrebbe offrire loro accoglienza e aiuto”. Il clima che si respira è di rifiuto, di condanna, che va oltre le singole azioni e colpisce tutti coloro che sono diversi per fede, cultura o colore della loro pelle. Ecco che torniamo a metter la pietra all’ingresso del sepolcro, allontanandoci dal comportamento di Cristo durante la sua passione: insultato non rispondeva con insulti, maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. La Pasqua, ricordava Benedetto XVI nel 2010, anno difficile per i tanti fatti di pedofilia, per le carte trafugate dal suo tavolo, vicende che lo avrebbero portato a decidere per la rinuncia, ha invertito la tendenza, è avvenimento “che ha modificato l’orientamento profondo della storia, sbilanciandola una volta per tutte dalla parte del bene, della vita, del perdono”.
Nel messaggio Urbi et Orbi Francesco parla di “frutti di pace”, di una “società fraterna”, di “incontro fecondo di popoli e di culture”. Guarda alla Siria, al Medio Oriente, ai tanti luoghi in cui uomini e donne vivono difficoltà e privazioni; guarda ai cristiani perseguitati per la fede e la loro fedeltà al nome di Cristo, e “dinanzi al male che sembra avere la meglio nella vita di tante persone”, Francesco ricorda “la consolante parola del Signore: non abbiate paura. Io ho vinto il mondo”. È un “no” alla mancanza di speranza e invito a ripartire con più coraggio e speranza per costruire una cultura dell’incontro e dell’accoglienza.

Fabio Zavattaro

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