“Non i morti lodano il Signore, né quelli che scendono nel silenzio” (Salmo 115,17). Il mondo ebraico misura le cose in modo molto concreto, per cui fatica a pensare che la morte sia passaggio ad una condizione migliore. Di fatto chi muore scende nel silenzio, non ha più le relazioni con gli altri e con il mondo, che da vivo gli riempivano l’esistenza. I morti non possono nemmeno lodare Dio, dal momento che noi umani gli diamo lode con i nostri corpi che lavorano, generano, amano. Tuttavia, proprio quel Dio che è in alleanza con il suo popolo ha dato prova di non abbandonare in una situazione desolata coloro che ama; ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto, ha ricondotto alla terra dopo l’esperienza dell’esilio, continua a sostenere con il suo braccio potente. Possibile, allora, che ci lasci nella morte?
La morte, alla quale tutti siamo destinati e che in certo senso è la realtà più naturale che ci sia, diviene pertanto interrogativo rivolto a Dio, alla fedeltà del suo amore. Scendere nel silenzio, rimanere nella morte separati da tutto e da tutti, è anzitutto sconfessione dell’alleanza con la quale il Signore si è impegnato a rimanere sempre e comunque il nostro Dio. In particolare è inaccettabile che la morte sia l’ultima parola per quanti si mostrano fedeli, sino al punto di morire martiri per la fede. È la madre dei fratelli Maccabei ad esprimere per la prima volta, in modo chiaro, la certezza interiore che ai figli, martirizzati sotto i suoi occhi, Dio ridarà la vita: “Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato il respiro e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore dell’universo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo il respiro e la vita” (2Maccabei 7,22-23). Ancor più questo è vero per il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che entra nella morte per fedeltà assoluta al Padre, in una condivisione d’amore con la nostra sorte. Non gli è infatti risparmiata l’esperienza del morire e nel modo più tragico possibile; ma non è abbandonato nella morte, il Padre lo risuscita a nuova vita.
“Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” (Giovanni 11,21), dice Marta, protestando perché non ha evitato all’amico il dramma della morte; Gesù le fa capire che non ci salva dalla morte, ma nella morte. Infatti il Padre, pur non risparmiando la morte al Figlio, lo ha risuscitato e non lascia nella morte neppure noi. Afferma Paolo: “Se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1Corinzi 15,12-14). Alla luce di questo mistero non è tolto il trauma della morte, tuttavia il morire riceve una luce nuova, che nel profondo ci pacifica con questa drammatica esperienza. Con gli occhi della fede ci è possibile scrutare il buio, sentendo che dall’altra parte non c’è il nulla, bensì un abbraccio che ci attende; il buio lo dobbiamo attraversare, come lo ha attraversato Gesù, ma pieni di speranza. In certo senso noi, in questa vita, siamo come il bambino nel grembo della madre; stiamo bene e non vorremmo uscire, ma mediante il trauma del parto veniamo alla luce. Un’antica tradizione della Chiesa chiama il giorno della morte “dies natalis”, evento quindi di nascita alla dimensione definitiva dell’amore, non di disperata discesa nel gorgo (come dice una poesia di Pavese). Significativamente celebriamo in due giorni consecutivi i santi e i morti, quasi fossero le due facce dell’unica medaglia; si muore per vivere, in Dio e per sempre.
Dario Vivian
(SIR)