Medio Oriente, serve un “Aiuto alla Chiesa che soffre”

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Attentati ai danni dei cristiani in Nigeria

Non è facile la vita dei cristiani in Israele e Palestina. L’allarme viene lanciato da mons. Paul Nabil el-Sayah, arcivescovo maronita di Haifa e Terra Santa, perché – egli dice – «Per gli ebrei noi siamo arabi, e quindi potenziali terroristi, e per i musulmani siamo cristiani, e quindi infedeli». Egli chiede quindi l’aiuto e l’attenzione delle potenze mondiali, perché senza il loro intervento le popolazioni locali non saranno in grado di risolvere da soli la situazione. E la presenza dei cristiani che vivono in Terra Santa è importante perché, spiega il presule, essi sono «i custodi dei luoghi sacri in cui è nato il Cristianesimo».

Mons. Paul Nabil el-Sayah, arcivescovo maronita di Haifa e Terra Santa

L’appello di mons. Sayah viene accolto e rilanciato dall’Opera “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS), un’organizzazione fondata nel 1947 da padre Werenfried van Straaten e che il 16 dicembre scorso il papa Benedetto XVI ha elevato a Fondazione di diritto pontificio. La Fondazione si contraddistingue come l’unica organizzazione che realizza progetti per sostenere la pastorale della Chiesa laddove essa è perseguitata o priva di mezzi per adempiere la sua missione. Anche in Palestina ha portato avanti dei progetti, come quello della costruzione di un centro per la pastorale sul monte Carmelo ad Isfya, a circa dieci chilometri da Haifa.

Tuttavia le difficoltà non fermano l’opera di mediazione e riconciliazione tra i due popoli  (arabo e palestinese) che si aggiunge agli importanti contributi cristiani all’istruzione, al sistema sanitario e ai servizi sociali. La convivenza pacifica è anche alla base del progetto «Incontro», un’interessante iniziativa che l’arcivescovo di Haifa porta avanti ormai da due anni. Un gruppo di ragazzi – quattro cristiani, quattro ebrei e quattro musulmani – s’incontrano periodicamente per conoscersi e confrontarsi su temi riguardanti la religione e la loro società. «Ho molta fiducia nei giovani – dice ad ACS il presule – perché sono pronti a cambiare e non sono infarciti di pregiudizi. Il nostro percorso sta dando molti frutti». Per l’arcivescovo maronita il conflitto israelo-palestinese non è interamente legato ad una matrice religiosa. «Ovviamente ci sono estremisti da ambo le parti – spiega – ma credo che alla base di tutto vi sia una questione politica: due popoli che cercano di dividere la stessa terra e mirano entrambi al potere». Gli arabi cristiani si trovano però a dover convivere con due teocrazie. «Nell’Islam e nell’Ebraismo la politica non è separata.

 Noi vorremmo meno enfasi sulla religione e maggiore rispetto per ogni credo». In futuro monsignor Sayah auspica quindi una maggior separazione tra stato e religione e nutre diverse perplessità sulla legge che impone ai nuovi cittadini di giurare fedeltà allo stato «democratico ed ebraico» di Israele. «Il 20% della popolazione è arabo – afferma – e ci sono i milioni di profughi palestinesi a cui le leggi internazionali garantiscono il diritto di tornare. Dicendo che Israele è terra di ebrei si lascia intendere che chiunque altro non è ben accetto».

Oltre che dalla Palestina, ad ACS in queste prime settimane del 2012 arrivano altre segnalazioni e testimonianze anche dalla Nigeria, dal Sudan del Sud e dal Pakistan. In Nigeria (dove proprio il giorno di Natale un’autobomba è scoppiata davanti alla Chiesa di Santa Teresa a Madalla nella periferia di Abuja, uccidendo 35 fedeli) in questi giorni si è tornato a parlare della possibilità di suddividere il territorio in due stati indipendenti, separando così il Nord musulmano dal Sud cristiano. Ma secondo l’arcivescovo di Abuja, mons. John Olurunfemi Onaiyekan, si tratta di «un’idea folle e insensata che affonderebbe la nazione in problemi persino più gravi». Per mons. Onaiyekan la divisione tra le due comunità religiose non è così netta e vi sono addirittura famiglie “interreligiose”: «Musulmani e cristiani convivono perfettamente. Vanno a scuola insieme, lavorano insieme e servono l’esercito insieme. Non si può spaccare in due il Paese da un giorno all’altro», e «non vi è alcuna guerra civile tra cristiani e musulmani».

 Anche mons. Daniel Adwok Kur, vescovo ausiliario di Khartoum, esprime preoccupazione per la rapida propagazione di disordini e violenze nel neonato stato del Sudan del Sud. Mons. Adwok racconta ad ACS che in molte zone la situazione è estremamente tesa e che numerose contese riguardanti il bestiame o le

Una scuola cristiana nel Sud del Sudan

 proprietà terriere sono presto sfociate in faide tribali. Il presule si rivolge quindi al governo guidato dal presidente Salva Kiir Mayardit chiedendo di «approfondire le cause degli scontri e tentare la via della riconciliazione». E mons. Adwok è convinto che la Chiesa cattolica possa fornire un contributo determinante nel «favorire un clima di riconciliazione». In Sud Sudan la Chiesa ha infatti un discreto potere d’influenza non solo per l’alta percentuale di cattolici, che in alcune regioni arrivano al 75% della popolazione, «ma soprattutto per l’essenziale aiuto umanitario prestato durante la guerra civile».

Donne pakistane

Le segnalazioni provenienti dal Pakistan riguardano soprattutto la situazione di sottomissione e di degrado in cui vengono tenute le donne, alle quali viene attribuita la colpa di qualunque cosa, anche dell’eventuale fallimento del proprio matrimonio e persino delle violenze subite. «In Pakistan le donne imparano fin dalla tenera età che gli uomini hanno il diritto di picchiarle e maltrattarle. E si considerano degli oggetti». E spesso la donna «è trattata come una schiava, a volte perfino costretta a dormire nella stalla assieme al bestiame».  Sono parole di suor Nazreen Daniels, che opera in un centro della diocesi di Faisalabad che assiste ragazze, donne e perfino bambine vittime di violenza, e che racconta alcune toccanti testimonianze di giovani che hanno subito abusi. Il clima di crescente islamizzazione della società pachistana ha infatti contribuito a demolire i pochi traguardi finora raggiunti. Come l’educazione femminile che, spiega ad ACS il vescovo di Faisalabad mons. Joseph Coutts, «per gli estremisti costituisce una vera e propria spina nel fianco. Ed è per questo che hanno distrutto una dozzina di istituti femminili nel Nord Ovest del Paese». La Chiesa cattolica difende strenuamente la dignità delle donne in Pakistan, attraverso scuole, corsi di cucito e concreti aiuti alle vittime di stupro. «Ma soprattutto – afferma Suor Nazreen – cerchiamo di diffondere la consapevolezza che siamo tutti esseri creati da Dio, con uguali diritti».

In tutte queste situazioni è molto forte e importante, come dicevamo, l’azione della Fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che soffre” (www.acs-italia.glauco.it). Ma anche il Papa Benedetto XVI, durante l’incontro con i membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (tenutosi il 9 gennaio scorso) ha dedicato un capitolo della sua riflessione al tema della libertà religiosa, che va considerata «il primo dei diritti umani», perché – ha spiegato – riconosce «la realtà più fondamentale della persona». Il Pontefice ha denuncia in particolare le violenze e le prevaricazioni ai danni dei cristiani in diversi Paesi. Ha inoltre condannato il terrorismo che usa la religione come «pretesto per accantonare le regole della giustizia e del diritto». E il quotidiano ”Avvenire”, il 17 gennaio scorso, così titolava, parlando di “fede negata”: “Pakistan, cristiani sotto assedio. 2011, un anno terribile”.

Nino De Maria