Cera che cola, occhi appena girati, parole a metà congelate nei volti immortalati. S. Agata che oltrepassa la porta del Fortino, S. Agata che si staglia sullo sfondo della Cattedrale, il fercolo di S. Agata davanti alle suore che cantano sul sagrato. Bocche spalancate e incorniciate da mani inguantate, callose e devote, denti bianchi come i sai, allineati nell’urlo della fede.
Queste e altre le scene della mostra fotografica “Sant’Aituzza”, nella quale il fotoreporter Antonio Parrinello ha raccolto circa 30 scatti in bianco e nero, rigorosamente su pellicola, raffiguranti momenti della grande festa dedicata alla patrona di Catania, condannata a morte nella metà del III secolo d. C. dal console Quinziano invaghitosi, inutilmente, di lei. Arroccata alla sua fede in Dio, Agata fu incarcerata e prima di essere costretta a camminare sui carboni ardenti fu sottoposta, mediante delle tenaglie, al violento strappo delle mammelle, risanate, secondo la tradizione, da San Pietro che la visitò di notte in carcere.
Gratuitamente, al palazzo Platamone è possibile respirare un po’ della festa di Sant’Agata, rito immancabile per i catanesi doc e folklore irresistibile per quanti, da ogni parte d’Italia e del mondo, vengono in Sicilia nei primi giorni del mese di febbraio per partecipare ad uno degli eventi religiosi più famosi per ardore e impianto celebrativo. I suoni e le voci della festa, con canti religiosi e invocazioni dialettali, fanno da sottofondo alle immagini, nelle quali è quasi sempre presente la meravigliosa scenografia dei palazzi antichi e dei monumenti di Catania, assieme a un ritratto misto, vero, crudo, di donne, uomini e bambini. Vengono immortalate tutte le espressioni dell’umanità variegata, e ci si stupisce che tanta miscellanea possa trovarsi tutta accatastata nelle stesse strade di basolato, negli stessi momenti: la concentrazione e la tensione fisica di quanti portano il fercolo, il riposo di tre ragazzi esausti sotto l’altare; sulle strisce pedonali, un anziano in coppola e giubbotto chiaro oltrepassa, assorto e a testa bassa, un trio devoto; una mano con la fede all’anulare che si sorregge la fronte mentre con l’altra si appoggia al compagno.
Dietro, c’è solo Catania. C’è la città, dietro l’uomo che distribuisce immaginette della santa, con i sui muri scrostati e il vuoto tondeggiante dei portoni aperti. È nei balconi a incorniciare le teste dei cavalli e il cocchiere in guanti e in parrucca, mentre gli occhi e i morsi dei cavalli sono lucidi, commossi dalla danza dei devoti. C’è Catania nella candelora e nelle persone accalcate sui balconi stretti, tra i panni stesi a sventolare; è semplicemente Catania con i suoi odori di frittura di pesce e minestrone che arrivano a folate dalle porte con le tende svolazzanti dietro via San Giuliano. Catania ossimorica, fatta di fuochi d’artificio e cera, palloncini e zucchero filato, voci e preghiere, calia, simenza e mele caramellate.
I punti di vista sono spesso inediti, molte sono le foto scattate dal basso, così come parecchie sono volutamente mosse ma non per questo testimoni meno efficaci del perfetto contorno della momentaneità bloccata. Nell’esultanza del cittadino più sfocato di tutti, quello in primo piano col braccio in alto e le vene sporgenti, nel busto ricco e il volto sorridente della santa che si immagina roseo anche in monocromia, nella candelora fatta di cassette per la frutta trasportata da due bambini, c’è il ritratto di una città, secondo lo stesso Parrinello “martire proprio come S. Aituzza bedda e miraculusa e ribelle come ‘a muntagna, l’Etna”.
Il treno passa sugli archi della marina, e nel flusso brulicante i devoti immobili della fotografia sembrano spilli, dalle teste nere e disordinate. Più in là un ambulante è accanto alla sua carne, e la lampadina pende dalla griglia da cui sale fumo. Nelle foto di Parrinello aspettatevi di incontrare la santità e il folklore, inscindibili. Troverete i singoli sguardi dei protagonisti della festa, S. Agata, i cittadini, e Catania. Tutta devota, tutta.