Riforma del lavoro: concludere bene

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Sono sostanzialmente quattro i capisaldi su cui si basa la riforma del lavoro in via di conclusione proprio in questi giorni. Due sostengono il cambiamento del sistema di entrata e di uscita del lavoro stesso; gli altri due tendono a mettere ordine nelle regole tra le parti (contratti) e, in particolare, sulla proliferazione delle partite Iva, spesso collaborazioni camuffate da attività professionale o imprenditoriale.

Il ministro Elsa Fornero sta discutendo da settimane con Confindustria e sindacati – ma non sono loro ad avere l’esclusiva della questione, anche se mediaticamente e politicamente appare così – una riforma che mira, da una parte, a rendere più facile sia l’occupazione, sia il licenziamento. Dall’altra, a creare una rete di protezione per chi il lavoro lo perde, soprattutto a una certa età. Non dimentichiamoci che un’altra riforma, quella delle pensioni, ha allungato la vita lavorativa degli italiani fino oltre i 65 anni di età.

La flessibilità. Regolamentata anni fa dalla cosiddetta riforma Biagi, ha creato maggiore occupazione giovanile, ma anche maggiore precarietà. Oggi in Italia c’è la possibilità legislativa di non assumere alcuno a tempo indeterminato per moltissimi anni. Va sfrondata qualche tipologia di contratto atipico non funzionale, ma soprattutto va creato uno strumento – l’apprendistato – che salvi la capra dei giovani e i cavoli degli imprenditori. Cioè, che il necessario tirocinio iniziale, il quale serve anche a capire le qualità lavorative della persona, non rimanga tale per anni senza alcuna possibilità di evoluzione in un’assunzione. Qui gli scogli non appaiono particolarmente appuntiti.

In questo contesto sta la questione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che interessa pochi milioni di italiani e che ha avuto poche centinaia di casi giudiziari nel corso del 2011. Il cuore della faccenda è tutto politico. In realtà le controparti italiane (Confindustria compresa) lascerebbero senza drammi le cose come stanno, stante la complessiva irrilevanza della questione; diversa è la spinta che viene da fuori Italia: il reintegro in azienda dopo un licenziamento è un’anomalia che non esiste in altri Paesi, e soprattutto è “soggettivo”, deciso cioè da un giudice caso per caso. Quanto di più incerto e irritante per i grandi investitori stranieri. Qualcosa si deciderà, anche qui con una scelta che salverà la capra economica con il cavolo ideologico.

Una parola sulle partite Iva, che fanno dell’Italia un popolo di simil-professionisti e imprenditori. In realtà nascondono rapporti di strettissima collaborazione, se non di dipendenza mascherata. La spiegazione è semplice: al possessore di partita Iva nulla è dovuto – stabilità del posto, malattia, gravidanza, formazione, previdenza integrativa… – se non il compenso per la prestazione eseguita, a costi (previdenziali) pure minori. E poi in Italia si discute da un decennio dell’art. 18…

Ma c’è pure la forte necessità di creare una rete di protezione che non abbandoni la persona a se stessa, una volta rimasta disoccupata. Ci sarebbe pure il capitolo dei giovani in cerca di lavoro, che in alcuni Paesi d’Europa ricevono un sussidio di disoccupazione; ma il vero scoglio qui è dato dalla carenza di risorse rispetto ai bisogni.

Oggi la situazione è assai complessa, tra cassa integrazione con vari regimi, mobilità, sussidi: un mix tutto sommato insoddisfacente, che va cambiato. Gli imprenditori spesso sfruttano questi ammortizzatori per usi impropri; e la modalità di protezione rappresenta il più delle volte uno sterile “cuscino” di lunga uscita dal lavoro. Mentre dovrebbe essere il trampolino che porti a un nuovo impiego.

Entro pochi giorni dovrebbero arrivare scelte definitive, se il tavolo di discussione non salterà in aria. Motivazioni politiche spingono per una chiusura rapida della questione, anche se certi temi meriterebbero una valutazione più attenta e approfondita. Perché poi, come nel caso delle norme penitenziarie, l’Italia si ritrova con le migliori leggi al mondo, e la peggiore applicazione delle stesse.

Nicola Salvagnin

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