Il residence degli “Aranci” è composto da 404 alloggi per un’estensione pari a cinquanta ettari. Tripli servizi dentro le abitazioni, spazi ricreativi con campi da calcio, baseball e basket, una cucina con la potenziale produzione di cinquemila pasti al giorno. Non parliamo di un villaggio turistico, bensì del Cara, (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo), più grande d’Europa, sito nel Comune di Mineo e gestito dal consorzio Sisifo. Dal marzo 2011, l’ex residenza delle famiglie dei Marines americani di stanza alla base Nato di Sigonella, ospita una comunità multi etnica formata da immigrati in cerca di protezione internazionale. Ne abbiamo parlato con Sebastiano Maccarrone, direttore di questo centro e già dirigente, dal 2007 al 2009, della struttura di prima accoglienza di Lampedusa.
– Quante persone ospita il centro Cara di Mineo?
“Momentaneamente il numero degli ospiti si attesta intorno alle duemila unità. La maggior parte di essi sono possibili richiedenti asilo in cerca di protezione internazionale. Il nostro staff, composto da duecento figure professionali, è distinto in quattro macro-aree: informatori legali, mediatori culturali, assistenti sociali e psicologi”.
-Quali sono le nazionalità più rappresentate?
“Dell’Africa subsahariana sono presenti migranti nigeriani, ghanesi e ivoriani. Come da consuetudine però la percentuale più alta arriva proprio dalle nazioni di Tunisia, Libia e Marocco. Ultimamente in notevole incremento stiamo registrando immigrati egiziani che, in questo momento, sfuggono per motivi di natura religiosa. Si tratta di cristiani copti fortemente emarginati nelle loro terre a tal punto da essere perseguitati”.
– Cosa accade, da un punto di vista burocratico, dopo che gli immigrati vengono registrati nei vostri archivi?
“Una volta che il soggetto manifesta la volontà di aprire la pratica per la richiesta di asilo politico, viene sentito dalla Commissione territoriale per il riconoscimento dello “status” di rifugiato. Questa impiega un paio di mesi per rilasciare la propria valutazione. Successivamente, in caso di esito positivo, si attende dal Ministero il rilascio del permesso di soggiorno.
Coloro i quali ottengono esito negativo,cioè quelli a cuila Commissionenon ritiene di poter dare alcuna forma di protezione internazionale, hanno la possibilità di fare ricorso presso il tribunale ordinario fino al terzo grado di giudizio.Quindi, la permanenza in questi centri non è ben definibile perché diventa soggettiva. Abbiamo persone che si trovano nella struttura da oltre sei mesi, altri che subito hanno ottenuto il permesso di soggiorno e sono andate via”.
– Lei è stato anche in “prima linea” come direttore del centro di prima accoglienza di Lampedusa. Le chiedo un confronto tra le due esperienze.
“Stiamo parlando di due centri d’accoglienza completamente diversi. Lampedusa tecnicamente è un Cspa,( Centro Soccorsi e Prima Accoglienza), dove si ha a che fare con persone che hanno visto la morte coi loro occhi, cui bisogna fornire soprattutto assistenza sanitaria e psicologica. Spesso i nostri operatori hanno soccorso genitori che avevano perso i figli durante il tragitto, interi nuclei familiari distrutti”.
– Ne approfitto allora. Uno dei ricordi più belli della sua esperienza lampedusana?
“Sono due, in verità, quelli che affiorano ricorrentemente alla mia mente. Il primo risale al giugno 2008 : una bambina, della quale abbiamo festeggiato il compleanno dopo aver scoperto che aveva compiuto quattro anni proprio durante la traversata. Ricordo ancora le sue espressioni di gioia e gli occhi lucidi della sua mamma.
Il secondo, molto emozionante e significativo, è il battesimo di una bambina nigeriana. La madre, durante una tempesta in mare, aveva fatto il voto di battezzare la piccola se fosse sopravvissuta alle intemperie. Questa notizia colpì moltissimo anche la sensibilità degli isolani che si presentarono al centro con vestitini e doni per la bimba”.
Raffaello Grassi