Cronache dalla Tanzanìa: il villaggio e i bambini

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Le comunicazioni di Ciccio (mio figlio, quello che si trova in Tanzanìa per un periodo di servizio civile internazionale a Ismani) non sono regolari, perché sono legate alla possibilità di connessione tramite le linee telefoniche, che non funzionano regolarmente come da noi (dove ci sono) e non sono nemmeno rapide.

Ciccio con alcuni abitanti del posto

A volte sono brevi comunicazioni, a volte sono lunghe riflessioni, a volte sono solo immagini fotografiche. Ma ogni volta danno uno spaccato della vita che Ciccio sta facendo in Africa, insieme con le persone del luogo e con gli altri stranieri (italiani per lo più) che stanno condividendo la sua stessa esperienza. Una delle ultime comunicazioni è abbastanza lunga, e ci descrive un po’ la vita del villaggio, ma ci parla soprattutto delle “ricchezze” del posto: gli anziani, i nonni e le nonne (le “bibi”) a cui sono spesso affidati l’allevamento e la cura dei bambini; ed i bambini stessi (“Sisi ni kesho”, come vengono definiti, e cioè – se ho capito bene il senso di queste parole – “noi siamo il domani”).

Questa è la comunicazione integrale di Ciccio, che si apre con una citazione dell’antropologo Ernesto De Martino e non ha bisogno di altri commenti:

 «Se è vero che la propria parte bisogna conoscerla bene…

…è altrettanto vero che occorre che le categorie attraverso le quali osserviamo e giudichiamo vengano messe in discussione… risolvere il paradosso dell’incontro tra il “proprio” e l’”alieno”, significa raggiungere il fondo universalmente umano in cui queste vengono riconosciute come due possibilità storiche di essere uomo, fondo a partire dal quale anche noi, avremmo potuto imboccare la strada che conduce all’umanità aliena che ci sta davanti.  (E. De Martino)

Tipica scena di villaggio

L’approccio verso diverse abitudini culturali, di comportamento e di vita in genere, richiede uno sforzo di decentramento personale che possa farti comprendere il punto di vista di coloro che ti stanno davanti e il loro modo di intendere la quotidianità. Fatto questo, è possibile comprendere i gesti e i modi di  fare, per potervi inserire pratiche positive nuove che possano conciliarsi con la loro cultura ed il loro stile di vita. Pretendere lo stesso in modo diverso, creerebbe solo fallimento e frustrazione.

Se in questi mesi ho capito una cosa, questa è che, se da un lato mi trovo in un universo parallelo lontano anni luce da quello che per noi significa civiltà, dall’altro, quello che c’è qui da imparare non lo trovi da nessun’altra parte. Il villaggio è una realtà con un impatto molto forte, che riesce però ad affascinarti per la sua naturalezza e genuinità. Capanne fatiscenti, una o due stanze dove si vive tutti insieme. Strade sterrate e grandi campi di mais e girasoli (per molti unica fonte di sostentamento). Bambini che giocano per strada, senza scarpe e rossi come la terra. Galline che ti girano ovunque e qualcuna anche messa a covare tranquilla vicino a te, sul divano “buono” di casa. Carenze igienico-sanitarie evidenti e bambini abbandonati al loro destino. Si vive con pochissimo e con enormi difficoltà; molti nonni/e anziani che allevano anche 4-6 bambini alla volta. La fascia di età adulta, quella produttiva che dovrebbe condurre lo sviluppo di un paese, è segnata dalla piaga dell’HIV. Nonostante ciò grande accoglienza, grande disponibilità all’incontro e tante persone che hanno voglia di raccontare e di ascoltare. Basta poco per essere felici, per ridere insieme e per entrare in relazione. Si lavora e con fatica si va avanti, nonostante tutto. Conoscerli, bere l’ulanzi con loro (una specie di cocktail a base di estratto di canna da zucchero), mangiare le mandazi (frittelle di pane) o i chapati (tipo piadine), ti fa essere automaticamente uno di loro. Eserciti il tuo swahili e loro, sorpresi, si stupiscono di ciò. Condividere la tavola, verdure e legumi, piatti semplici ma ricchi di significato che ti fanno aprire una finestra di dialogo con il loro mondo, le loro giornate.

La scuola, strumento di riscatto per tanti bambini, è un luogo in cui far forza sulle proprie capacità e risorse personali. Classi di 60-70 bambini in cui inevitabilmente non c’è spazio per tutti, in cui manca il materiale didattico, dove non tutti i bambini hanno penna e quaderno, in cui ogni bambino si ritrova la responsabilità del proprio futuro in mano. La disabilità come conseguenza di una deprivazione e una mancanza totale di stimoli e servizi. Da qui parte il nostro lavoro. Dalla conoscenza di ciò che ci circonda. All’interno di un sistema carente entri tu, timidamente, con la convinzione non di sostituirli ma di accompagnarli. Cento li aiuti ma mille rimangono fuori. Allora che fai? Fai le valigie e torni a casa o fai in modo che quei cento diventino duecento e così via…

Ogni azione va contestualizzata, va resa concreta e basata sull’esperienza. Tutto va fatto insieme, perché serva a loro e non a me. Perché domani possano camminare sulle loro gambe.

Presto inizieremo il programma di educazione sanitaria villaggio per villaggio e li sarà una bella sfida.

Tutti a tavola!

La realtà di Nyumba Yetu (*) è un po’ diversa. I bambini sono seguiti e curati. Vivono un contesto molto più protetto del villaggio, ed il rientro a casa, ogni ultimo WE del mese, rende evidente la differenza e, se vuoi, le contraddizioni. Si direbbe che sono bambini privilegiati, e forse lo sono, ma quando li vedi piangere perché vorrebbero rimanere a casa loro, ti rendi conto che nonostante i sacrifici e le difficoltà, quella rimane pur sempre la loro casa e la loro famiglia. Allora sì, intervenire di fronte a casi estremi di povertà, disagio e malattia, ma credo che rimanere sempre vigili per evitare che l’accoglienza e l’aiuto diventi abitudine o sussistenza, è fondamentale. Fortunatamente i bambini si adeguano presto e poco dopo sono di nuovi belli e sorridenti.

L’asilo qui con i bambini è un caos totale. Momenti di anarchia in cui l’unica cosa che vorresti fare è gridare. Ma poi guardi i sorrisi e sei contento che sia così. La libertà di un bambino vale più di ogni altra cosa. Ti si attaccano emotivamente, e tu di conseguenza, e pensi che lasciarli tra qualche mese sarà dura. Vederli giocare imitando i lavori dei grandi è fantastico e capisci come un bambino è tale da tutte le parti e il gioco è uno strumento universale che unisce tutti. Sarà dura far sì che questo gioco però possa servigli a crescere, a imparare e sviluppare le loro capacità. Pole pole (piano piano). Per il momento sono loro che, giocando, mi insegnano il Kiswahili.

Il doposcuola con l’insegnante va già meglio, anche io imparo qualche parola nuova e la correzione degli esercizi ormai è cosa mia. Vema! (sarebbe il nostro bravo che alle elementari ci scrivevano sul quaderno). Qualcuno va seguito individualmente e, riuscendo ad avere qualche risultato positivo dai bambini con difficoltà di apprendimento e attenzione, riesci ad attuare piccoli cambiamenti anche nei metodi di insegnamento del Mwalimu (insegnante) locale che, abituato ai grandi numeri e al poco tempo, forse non aveva mai pensato di seguire i bambini con percorsi individuali.

I bambini portati all'ospedale col camion. Notare quelli che fanno OK col ditino

E poi tante altre immagini che raccontate potrebbero non rendere l’idea, e che di presenza sono tutt’altra storia: i bambini in ospedale portati tutti dentro un camion e poi pesati, appesi alla bilancia, come dei vitellini; I loro balli, il sabato sera dopo cena, con i video musicali tipici tanzaniani; la gita del 1° maggio in bus e tanto altro.

Momenti di relax con i colleghi

Ogni tanto si stacca un po’. Si ritorna con se stessi, per metabolizzare e fare tesoro di ogni esperienza. Il fine settimana una volta al mese si va in città, si rivedono i colleghi degli altri progetti, ci si confronta e si fanno un po’ di compere. Si ricaricano le batterie e si continua più ricchi per questa bella avventura.

A presto.

Ciccio»

 

(*) Un’altra missione della Tanzanìa; la traduzione letterale del termine significa “casa nostra”.

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