Pubblichiamo il contributo di un lettore su una delle pagine più tragiche della storia bellica italiana, che solo negli ultimi anni, per l’attivismo di alcuni parenti di vittime, è stata portata all’attenzione del governo e dell’opinione pubblica italiani.
Il 12
febbraio ricorre il 75° anniversario dell’affondamento del piroscafo Oria, il
più grande naufragio del Mediterraneo e una delle maggiori tragedie della
seconda guerra mondiale, nella quale persero la vita oltre 4000 soldati
italiani. Nei mesi convulsi successivi all’armistizio e precisamente l’11
febbraio 1944, i tedeschi imbarcarono migliaia di internati militari italiani
sul piroscafo Oria (una vecchia nave del 1920 requisita ai norvegesi) per
trasferirli da Rodi al Pireo e successivamente ai campi di lavoro in Germania.
Il piroscafo Oria salpato l’11 febbraio 1944 da Rodi alle ore17.40 per il Pireo
con a bordo più di 4000 soldati italiani, che, dopo l’armistizio dell’8
settembre 1943, si erano rifiutati di aderire al nazifascismo, colto da una
tempesta affondava il giorno successivo vale a dire il 12 febbraio presso Capo
Sounion, situato 25 miglia a sud di Atene, dopo essersi incagliato nei bassi
fondali vicino all’isola di Patroklos; meno di 30 italiani si salvarono.
Raccontava
così Aldo Percivale, superstite del naufragio, ai suoi familiari: “Rodi, era
l’11 febbraio 1944, il mio reggimento era stato fatto prigioniero dai tedeschi
il 13 settembre 1943 e dopo mesi ci stavano imbarcando su un piroscafo per
trasferirci in un campo di prigionia: non so esattamente dove, ma so che da
Rodi eravamo diretti al Pireo di Atene. Di bocca in bocca avevamo saputo che il
piroscafo era norvegese: era conciato talmente male che a salire là sopra
bisognava proprio esserci costretti. Ci guardavamo attorno e ci chiedevamo come
avrebbero potuto caricarci tutti, ma i tedeschi continuavano a farci salire, e
nel frattempo caricavano barili e un sacco di altra roba. La mia fila è stata
fatta salire sul ponte della nave, l’altra fila letteralmente cacciata nelle
stive. Li hanno chiusi là sotto come topi in gabbia. Noi almeno potevamo
respirare. Non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di quei poveretti
là sotto. Forza ragazzi, forza, ripetevo: a me, a loro, e a tutti quelli che
avevo vicino.
Per i tedeschi non eravamo più soldati e neanche uomini, ma soltanto traditori.
Meritavamo di essere trattati nel peggior modo possibile, e se stavamo
ammassati, schiacciati uno contro l’altro, senza mangiare né bere, ancora
grazie, che invece avrebbero dovuto fucilarci tutti. Questo era quello che ci
dicevano i nostri ex-alleati, e per loro ogni angheria nei nostri confronti era
giustificata.
“Quando il piroscafo si è mosso era quasi buio: abbiamo lasciato Rodi. Faceva freddo e il mare era piuttosto agitato: noi stavamo là in mezzo alle onde, senza poterci muovere, incastrati, un po’ a farci coraggio, un po’ muti nella nostra disperazione. C’era chi stava male, e nessuno poteva far niente per nessuno. Poi nella notte si è scatenata la tempesta; vento e pioggia fortissimi hanno investito il piroscafo che ha iniziato a imbarcare acqua. Sembrava il diluvio. Io credo che tutti, proprio tutti avessimo la certezza che stavamo affondando; poi c’è stato il boato dello schianto, il rumore del mare, le grida e l’acqua che mi entrava in gola. Per un po’ ho cercato di nuotare, ma verso dove? Galleggiava di tutto, e io mi sentivo pesante come se avessi avuto le tasche piene di pietre. La forza del mare era troppo per me, non ce l’avrei mai fatta. All’improvviso, quando ero sul punto di arrendermi, mi sono reso conto che con i piedi avevo toccato terra”.
A bordo del
piroscafo vi erano anche i prigionieri del 331° reggimento fanteria Bressanone
facente capo alla divisione Brennero. Questo eroico reggimento di presidio al
settore strategico Calithea, nell’Egeo, al comando del capitano Venturini, dopo
l’armistizio di Cassibile, si oppose strenuamente alle truppe tedesche della
Sturmdivision Rhodos, ma dopo 3 giorni di aspri combattimenti i nostri soldati
furono costretti alla resa.
Tra quei valorosi uomini vi erano due ragazzi randazzesi poco più che ventenni,
il soldato Salvatore Fornito, zio di chi scrive, e il tenente Renato
Vagliasindi.
Il 24 ottobre 1942 il 331° reggimento fanteria Brennero viene trasferito a Rodi e posto alle dipendenze della Divisione di Fanteria “Regina”. Alla notizia dell’armistizio, essi si trovano a Rodi inquadrati nel 331° e nel 309° reggimento della divisione Regina, quando il governatore italiano dell’isola, Inigo Campioni, e il comandante della divisione generale, Michele Scaroina, intimano che tutti i reparti depongano le armi senza condizioni. Lo sdegno e le proteste a nulla valgono e il 12 settembre inizia il disarmo dei militari italiani. La stragrande maggioranza vengono arrestati e internati in campi di raccolta allestiti sulla stessa isola. Salvatore e Renato sono tra questi giovanissimi, ventun’anni il primo, appena 22 il secondo, scelgono la prigionia piuttosto che rinnegare la propria dignità.
Si saprà del loro tragico destino solo alla fine del decennio, allorché si occuperà del caso un’apposita Commissione interministeriale che utilizzerà ogni forma di approfondimento pur di mettere a punto la formazione o la ricostituzione di atti di morte e di nascita non redatti, andati perduti o distrutti per eventi bellici. Da uno dei tanti verbali di ‘scomparizione’ e di dichiarazione di morte presunta stilati dalla predetta Commissione e previa nulla osta del Tribunale civile di Catania e successivamente trasmessi e registrati presso l’anagrafe del Comune di Randazzo nel maggio del 1951, nell’apposito registro, si legge, infatti, che egli era presente a bordo del piroscafo di cui non si conosce il nome, ma oggi lo si sa, grazie al racconto dei sopravvissuti e al fortuito ritrovamento del registro degli imbarcati.
Trascorreranno
settant’anni prima che i caduti dell’Oria ricevano, benché fuori dai confini
nazionali, l’onore della memoria collettiva: grazie all’impegno dei famigliari,
del Comune di Saronikos (Grecia) e ad una donazione privata, il 9 febbraio 2014
viene inaugurato un monumento commemorativo sulle sponde dell’Egeo. Il 2 giugno
dello stesso anno sono insigniti della medaglia d’onore ai deportati nei lager
nazisti, alla memoria, dalla presidenza del Consiglio con cerimonia di consegna
presso la prefettura di Catania.
Il piroscafo della tragedia, l’Oria, era una nave norvegese del 1920
(2127 tonnellate), che, dopo una permanenza di qualche anno nella flotta
francese, nel 1942 ripassa nelle mani del proprietario originario che la ribattezza
col nome di Oria e l’affida ad una compagnia tedesca di Amburgo;
essa è tra le cosiddette ‘carrette del mare’ utilizzate dai tedeschi per il
trasporto dei prigionieri italiani dalle isole egee al continente.
Le ricerche, avviate da alcuni discendenti dei caduti, hanno reso possibile il recupero della lista degli imbarcati e la precisa localizzazione del relitto. Domenica 10 febbraio 2019 alle ore 11, in Grecia, presso il monumento ai caduti dell’Oria (60° km della strada Atene – Suonion), eretto nel tratto di costa prospiciente al luogo della tragedia, alla presenza dell’ambasciatore d’Italia Efisio Luigi Marras, dell’arcivescovo di Atene Sevastianoos Rosolatos, del vice governatore dell’Attica Orientale Petros Filippou, del sindaco di Saronikou Georgios Sofronis, del sindaco di Layreotikis Dimitrios Loukas, del presidente del consiglio Stamatis Papathanasiou e di autorità civili, militari, religiose e diplomatiche elleniche e italiane, e a un gruppo di 45 familiari dei dispersi recatisi sul luogo da tutta Italia, si è svolta una solenne commemorazione in occasione del 75° anniversario del naufragio. I presidenti della Repubblica Italiana e Greca hanno inviato una propria partecipazione.
Intitolazione
di strade, ricerche storiche, tutela del relitto sono alcune delle molte altre
iniziative che la rete spontanea delle famiglie sta tentando. Il
gruppo di ricerca sul naufragio dell’Oria ha suggerito ai Comuni
italiani l’intitolazione di una strada o di un altro spazio pubblico
urbano ai dispersi del naufragio del piroscafo Oria. L’intitolazione
di una strada contribuirebbe sia al riconoscimento del valore del sacrificio,
sia alla diffusione della conoscenza della vicenda, e quindi alla ricerca delle
migliaia di famiglie ancora ignare di quella che è stata per troppo tempo
una strage sconosciuta, senza memoria e con poche e frammentarie informazioni
sulla esatta dinamica del naufragio delle migliaia di dispersi nel mare Egeo,
dato che la drammatica storia è uscita solo da pochi anni dall’ oblìo grazie
alle ostinate ricerche di alcuni famigliari dei dispersi.
Non potrà mai essere cancellato il ricordo di questi eroi d’altri tempi,
esempio di valori autentici che, anziché piegarsi al volere nazista, compirono
il loro dovere, senza mai tradire la Patria al quale avevano giurato fedeltà.
Vincenza Paparo, madre di Salvatore, aspetterà per anni inconsolabile il ritorno del figlio. Vincenzo Vagliasindi e il figlio Ettore si impegneranno in una strenua ricerca che, con l’aiuto della curia vescovile di Acireale li porterà a rintracciare la piastrina di riconoscimento di Renato .
Vito Gullotto