Nell’autunno del 1516 Leonardo da Vinci decide di lasciare l’Italia e di trasferirsi in Francia, accettando l’invito di Francesco I. Tre mule trasportano al di là delle Alpi tutto ciò che quest’uomo, ormai sessantaquattrenne, e già deciso a non far più ritorno nella sua terra, ritiene di portare con sé. Sicuramente tre tele, di cui una è la Gioconda, e poi disegni, documenti, manoscritti, trattati: ciò che resta di una vita vissuta all’insegna dell’arte e della ricerca, il cui senso è ben rappresentato da quella sorta di prezioso diario che Leonardo ha l’abitudine di compilare, appuntandovi massime, sentenze e riflessioni.
Sono stato qualche anno addietro nella regione della Loira ed ho visitato la casa di Cloux, donata a Leonardo da Francesco I, nei pressi della deliziosa Amboise, dove il grande Leonardo visse per circa tre anni, chiudendo la sua vita il due maggio del 1519 Per tutto il tempo della mia breve permanenza in quei luoghi una domanda mi ha angosciato: cosa spinse Leonardo a venire qui, a lasciare per sempre la sua terra, adattandosi volontariamente a vivere con il suo fedele allievo Francesco Melzi, di circa quarant’anni più giovane, con il suo servitore Battista de Villanis e con una donna del luogo, una certa Mathurine, ingaggiata per accudire alla cucina ed al ménage di routine?
Non sentiva egli, come la maggioranza degli uomini, l’anelito a chiudere i suoi giorni lì dove era nato? La risposta è ovviamente negativa. Anzi: si può pensare che il senso di estraneità alla sua terra, a Firenze, a Roma a Milano, i luoghi dove aveva lavorato, fosse in lui così forte da spingerlo a troncare con il passato e con gli affetti ed a sobbarcarsi ad intraprendere un viaggio lungo (circa tre mesi), faticoso e pericoloso pur di mettere una grande distanza e la catena delle Alpi tra quanto gli restava da vivere e quanto era ormai il suo vissuto. Tra gli uomini del suo passato e quelli del suo futuro. E’ tremendo pensare ciò di un grande genio. E’ tremendo cioè che un genio come Leonardo non sia stato né compreso né amato dagli Italiani di allora.
La vicenda di Leonardo, oggi tornato suo malgrado alla ribalta in occasione dei cinquecento ani dalla sua morte, diventa un terribile paradigma per quanti finiscono i propri anni portandosi addosso il gravame di un sentimento di marcata estraneità ai modelli della consuetudine consolidata della vita passata. Ci si accorge come gli ambiti sono stati assai stretti e noiosamente ripetitivi in rapporto all’urgenza ed alla voglia di una vita che avrebbe potuto essere diversa. Il noto diventa obsoleto ed invano si cerca in esso qualcosa che possa ravvivarlo di un luce diversa dal fitto grigiore che l’opprime.
Leonardo aveva dato alla sua terra il frutto del suo inimitabile genio. Ne aveva ricevuto in cambio troppo poco. Sentiva che i suoi occhi avevano bisogno di altri paesaggi e di altro cielo da vedere, di altri uomini a cui confidare i sogni ancora freschi della sua mente prodigiosa, di altre terre su cui porre le stanche orme dei suoi incerti passi.
Se è sua la tomba in quella stretta cappella del castello di Amboise, allorché ci chiniamo su di essa per riverirla sentiamo il bisogno di affidare a lui il bisogno di essere cittadini del mondo e di guardare all’Europa non tanto quale patria di un’infausta moneta, ma come la culla di una civiltà antica che ci appartiene, perché senza di essa rischieremmo di essere più miseri e provinciali.
Alfonso Sciacca