Sono proseguite senza sosta le ricerche dei dispersi del naufragio a Lampione, vicino Lampedusa. Sono ancora molti gli interrogativi che avvolgono la vicenda. Non è certo il numero dei dispersi così come non è chiaro quante persone fossero presenti sulla barca. Di sicuro si sa che gli sbarchi, nonostante la tragedia appena vissuta, stanno proseguendo. A margine dell’incontro “Religioni e Culture in dialogo” in corso a Sarajevo (dal 7 all’11 settembre), abbiamo intervistato il card. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e itineranti.
Che cosa dire di fronte all’ennesima tragedia del mare?
“Di fronte a queste tragedie, ci si sente umiliati. Queste morti ci chiamano alla coscienza e ci chiedono: che cosa facciamo? Che cosa facciamo per queste persone prima che muoiano o per evitare che muoiano? Non sono chiare le dinamiche di questa ultima tragedia nel mare. Di solito le barche affondano perché vengono sovraccaricate. Sono anche da chiarire le responsabilità: però è triste sapere che avvengono questi fatti nel terzo millennio, che ci sia gente che muore per trovare un lavoro, per mantenere una famiglia, o che per garantire per sé e i suoi figli una vita sicura, è costretta a lasciare tutto”.
I governi sono attrezzati ad affrontare questa emergenza e quali sono i nodi che la preoccupano?
“No, non siamo attrezzati. Soprattutto psicologicamente, perché in fondo siamo tutti profondamente egoisti. Viviamo nelle nostre torri d’avorio e tutto ciò che è diverso, ci disturba. Per questo è necessario creare una mentalità più aperta verso questi nostri fratelli, perché tali sono, e sono stati meno fortunati di noi. Ho l’impressione che non risolveremo mai questo problema, anzi pare che aumenti. Comunque, ci sarà sempre. La migrazione è nella natura umana. Ci saranno sempre le persone che vorranno vivere meglio, e cercheranno quindi un posto dove poter realizzare questa aspirazione. Non ci sono bacchette magiche per risolvere la questione. Di fronte però all’ineluttabilità del fenomeno, occorre creare una mentalità nuova più accogliente, direi più umana. Quando c’è gente che muore nel mare, per fuggire da situazioni brutte, per cercare una vita migliore, quando c’è gente che lascia la patria per trovare lavoro, quando c’è gente che è obbligata a scappare dal proprio Paese perché c’è la guerra o ci sono disastri naturali, non possiamo chiudere un occhio e dire che non c’importa”.
Alcuni invocano respingimenti. Altri addirittura l’uso della forza. Lei cosa dice?
“È una vergogna. Il respingimento è una vergogna e l’uso delle armi ancora peggio: è come quando uno sta morendo di fame e chiede un pezzo di pane a chi è al banchetto. E si sente rispondere di andare via perché disturba. Ritengo che sia normale che ci sia un controllo, perché l’apertura anche umana e cristiana non vuole dire essere degli ingenui. Il flusso dei migranti è un problema che deve essere affrontato con giudizio, non respingendo tutti in mare né dicendo di venire tutti”.
Qual è allora la posizione della Santa Sede di fronte a questi problemi?
“La Santa Sede ritiene che questo fratello che viene, è un fratello nostro. E quindi ha gli stessi nostri diritti e doveri. È quindi una posizione di apertura perché sono nostri fratelli e figli di Dio, ed è un richiamo alla responsabilità a chi arriva qui, al quale si chiede di essere pronto a osservare le leggi. E soprattutto occorre cercare l’integrazione, conservando la propria identità religiosa e umana in un contesto di pluralità”.
Con la transizione araba c’è poi il grande problema dei profughi e dei rifugiati.
“La Siria è un mistero. Ci sono migliaia di morti e il mondo fa finta di non accorgersene. Capisco che è una situazione che ha preso un po’ alla sprovvista: quando ero nunzio in Libano, la Siria era la potenza dominante nella regione. Mai avrei pensato che un siriano arrivasse in Libano come profugo. Il Medio Oriente è come un mondo in ebollizione che viene coperto ma che sotto è come un vulcano. L’Europa molte volte si nota per la sua assenza perché politicamente è ancora debole”.
a cura di Maria Chiara Biagioni, inviata Sir Europa a Sarajevo