Industria / L’Italia rischia l’addio all’acciaio? Il sociologo Manghi: “Difficile immaginare il nostro Paese senza”

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Con la vicenda ArcelorMittal sull’ex-Ilva di Taranto che non sembra trovare una soluzione definitiva, rimane incerto il futuro della produzione dell’acciaio in Italia, nonostante siamo tuttora il secondo produttore europeo dopo la Germania con dati incoraggianti sull’output a maggio. Dei possibili sviluppi ne abbiamo parlato con il sociologo Bruno Manghi, esperto di tematiche industriali e sindacali.
“La storia dell’acciaio e la nostra storia economica si sono intrecciate più volte. Rinunciare ad un settore storico è sempre una scelta molto controversa. E non vedo in giro indovini che prevedano un futuro dell’Italia senza acciaio. Immaginare l’Italia senza acciaio è come pensare che l’Italia, da qui a dieci anni, non produca più automobili. Può anche darsi, ma non mi sembra ad oggi un indovinello interessante”. Parte da qui il professore Bruno Manghi, sociologo e già sindacalista della Cisl, per commentare al Sir la situazione dell’industria dell’acciaio in Italia alla luce della vicenda ArcelorMittal sull’ex-Ilva di Taranto.

Professore, l’Italia corre davvero il rischio di rimanere senza acciaio?
L’Italia è un Paese industriale e resta un Paese che vive molto della sua industria. E, ovviamente, l’acciaio fa la sua parte. D’altra parte tutti i Paesi sviluppati producono acciaio. Non so quale sia la prospettiva, ma l’acciaio viene prodotto in Francia, in Belgio, in Inghilterra, soprattutto in Germania, e poi ancora nei Paesi dell’Est e negli Stati Uniti. Quella dell’acciaio resta una produzione distribuita in tutti i Paesi sviluppati e anche in qualcuno più arretrato. E se risulta difficile sapere cosa accadrà nei prossimi dieci anni con nuovi materiali e nuove tecniche, ad oggi non ci sono motivi per dire che non si produce più acciaio o, che ne so, cemento.

La discussione allora su cosa dovrebbe essere incentrata?

Il problema non può essere risolto semplicemente con “acciaio sì” o “acciaio no”. Ma bisogna capire quanto e quale acciaio si vuole produrre. Perché ci sono tanti acciai: ci sono quelli di qualità destinati a determinate produzioni, quelli destinati alle rotaie ferroviarie, quelli per i tubi, per l’edilizia… In sostanza, oggi l’acciaio è un prodotto con molte scale di qualità e di utilizzo diverse. A Cremona, con Arvedi e Marcegaglia, come in altre parti della Lombardia ci sono delle industrie dell’acciaio storiche, importanti. Andrebbero sentiti anche questi altri imprenditori che sono italiani e che se continuano ad investire vuol dire che riescono a stare sul mercato.

In generale, però, il periodo non è positivo…
Dicono che siamo diventati, per certi aspetti, importatori di acciaio. Il problema esiste. Ed è chiaro che se l’acciaio prodotto serve per l’automotive e l’automotive va in declino, i produttori di acciaio perdono un cliente importante o vedono ridotte le commesse.

Sulla vicenda di Taranto pesa molto la questione ambientale…
La mia opinione, avendo fatto anche uno studio quand’ero giovane negli anni ’60 quando a Taranto c’è stato il raddoppio, è che ovviamente il problema esiste. Il quartiere Tamburi anche se all’ex Ilva non si fa più l’acciaio ormai è inquinato, per cui andrebbe spopolato.
Si tratta di una catastrofe ambientale, un luogo probabilmente compromesso da decenni di inquinamento, bisognerebbe analizzare le falde acquifere. Credo sarebbe meglio non vivere lì, e mi stupisco che di questo non si discuta.
Una cosa è certa, l’inquinamento profondo – ce lo insegnano i casi dell’Eternit a Casale Monferrato o della siderurgia di 30 anni fa a Sesto San Giovanni – non scompare se cessa la produzione.

 Alberto Baviera

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