Solo dopo aver risanato potrà tornare a produrre.
L’Ilva dovrà spegnere gli impianti dell’area caldo sotto sequestro. Solo dopo aver risanato potrà tornare a produrre. La procura della Repubblica di Taranto ha espresso parere negativo sul piano d’interventi immediati consegnatole dal presidente della prima acciaieria d’Europa, Bruno Ferrante. L’azienda sul piatto della bilancia aveva messo 400 milioni di euro per porre rimedio al disastro ambientale di cui è accusata. Il secco “no” della procura arriva, come previsto, dopo quello dei tre custodi giudiziari, nominati dal giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, che qualche giorno fa avevano consegnato al procuratore e ai pm inquirenti una nota scritta in cui bocciavano il piano. Alla Procura l’Ilva aveva chiesto inoltre di poter conservare una minima capacità produttiva per attuare nuovi investimenti sul piano della riqualificazione ambientale ma pure su questo è arrivata una risposta negativa.
Il sequestro resta senza facoltà d’uso, così come stabilito dalla Todisco prima e dal Tribunale del riesame poi, anche se di fatto cokerie e altiforni non sono ancora stati spenti e a due passi dal quartiere Tamburi si continua a produrre acciaio e ad avvelenare i cittadini. Alquanto seccato dalla vicenda è apparso il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, che sta lavorando ad una nuova Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale, con le prescrizioni che il colosso dell’acciaio dovrà seguire per poter continuare la propria produzione. Prescrizioni che tengano conto di quanto emerso dalla perizia epidemiologica richiesta dal gip Todisco. “È comunque il ministro dell’Ambiente – ha riferito ai giornalisti – ad avere per legge nazionale la responsabilità di autorizzare l’impianto. Ricordo che né il procuratore della Repubblica, né il gip, né il presidente del Tribunale hanno il potere per autorizzare un impianto industriale, per cui alla fine andremo a chiarire anche questa diatriba che si potrebbe creare. Perché mentre la procura della Repubblica deve perseguire i reati, e deve farlo con rigore, le decisioni su come una fabbrica deve essere gestita e su quali siano le tecnologie che devono essere utilizzate, sono di competenza dell’amministrazione”.
Al centro della diatriba da una parte gli operai, che temono di perdere il proprio posto di lavoro e protestano fuori dalla direzione, all’interno dello stabilimento, e dall’altra il fronte ambientalista che, a esclusione di Legambiente, favorevole ad un’Aia più restrittiva, chiede la chiusura immediata di tutta l’area a caldo dell’Ilva e l’impiego dei disoccupati nelle bonifiche della zona industriale più grande della città stessa. Il clima è reso ancor più rovente dal botta e risposta, a suon di querele, tra il ministro Clini e il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, che alle scorse amministrative fu in lizza per la poltrona di sindaco del capoluogo jonico e che oggi si trova in Consiglio comunale tra i banchi dell’opposizione. “Ci sono dati di notevole importanza tenuti ancora nel cassetto”, aveva denunciato Bonelli in una conferenza stampa qualche giorno fa. “Si tratta dei dati raccolti nella seconda fase dello studio Sentieri, coordinato dall’Istituto superiore di sanità, relativi al periodo 2003-2008 (mancano i dati relativi al 2004 e al 2005). Il ministro della Salute Balduzzi ha sostenuto che queste informazioni fossero ancora in fase di elaborazione precisando che sarebbero state presentate il 12 ottobre. Perché ritardare la divulgazione di documenti già pronti da mesi e addirittura in possesso della procura della Repubblica di Taranto dallo scorso 30 marzo? Ovviamente per permettere il varo di un’Aia che non tenga conto dei dati sanitari più recenti e più preoccupanti”. Secondo alcuni dei dati svelati da Bonelli e dal presidente di Peacelink, Alessandro Marescotti, nei quartieri della città a ridosso dell’Ilva e nel comune attiguo di Statte si registra il 10% in più di decessi rispetto alla media regionale, il 12% in più per tumori, e il 24% in più per quelli che colpiscono fegato, trachea, bronchi e polmone. I dati diventano ancora più allarmanti se si guarda ai bambini, con un più 35% di morti sotto il primo anno di vita e un più 71% di decessi per condizioni morbose di origine perinatale. Dati che per gli ambientalisti rivelerebbero il nesso di casualità tra mortalità e inquinamento industriale ma che il ministro Clini definisce incompleti e non necessariamente riconducibili alla presenza della grande industria sul territorio jonico.
La partita resta tutta da giocare, il timore è che a farne le spese però siano ancora i tarantini.
Marina Luzzi – “Nuovo Dialogo” (Taranto)