Questa volta, parto dalla fine. L’art. 17 del disegno di legge costituzionale sulla riforma della giustizia dice, nero su bianco, che i principi affermati “non si applicano ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore”. Non è una legge fatta per ragioni salvifiche, non riguarda il premier. Probabilmente, visto che si tratta di una legge di riforma della Costituzione che richiede la doppia approvazione da parte di Camera e Senato, ed eventuale referendum confermativo, non farebbe neppure in tempo ad arrivare in porto prima che si facciano i vari processi al re nudo, democraticamente eletto ma rimasto senza scudo, che procedono invece con ben altra lena.
È una riforma che si propone di cambiare il rapporto giudici/società per renderlo maggiormente adeguato alla realtà odierna. Prendiamola per quella che è, senza riserve mentali, senza prefigurare scenari apocalittici, senza richiamare la storia del cavallo di troia mandato dall’acheo Berlusconi per distruggere il campo politicamente avverso della magistratura. Alcuni dei nodi problematici che la legge si propone di risolvere sono citati da tempo nel dibattito dei costituzionalisti e negli atti di precedenti commissioni parlamentari.
Il punto più delicato è quello che prevede la separazione della carriere tra giudici, ai quali è affidata la funzione giurisdizionale, e pubblici ministeri, che rappresentano l’accusa nel processo, posta sullo stesso piano della difesa assicurata dagli avvocati, a garanzia di una miglior realizzazione del principio di parità “davanti a giudice terzo e imparziale” già prevista dall’art. 111 cost. Di conseguenza anche l’organo di autogoverno della magistratura, il Csm, si sdoppia, e ne cambia la composizione, per metà togata (eletta a sorteggio), e per metà laica (eletta dal parlamento tra professori ed avvocati), per ridurre l’incidenza delle correnti all’interno della magistratura che rischiano di politicizzarla.
Non è invece previsto alcun controllo, da parte del potere esecutivo, dei p.m., come viene da più parti accusato; anche se è invece previsto in molti altri paesi, a partire da Germania e Francia. Altro punto è la responsabilità civile dei magistrati. Il principio “chi sbaglia paga”, esteso ai magistrati, non fa altro che prendere in considerazione gli esiti di un ormai vecchio referendum. Certo, potrebbe portare da parte dei magistrati ad una giustizia assolutoria, per evitare problemi. Ma è anche vero che potrebbe rappresentare un freno a quelle forme di esercizio gravemente incauto del potere giudiziario che si traducono in misure ingiustificate sulla vita e sulle opere delle persone, che a volte fanno addirittura pensare a un’inversione del principio cardine della presunzione di innocenza.
La riforma ribadisce poi l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale da parte dei p.m., aggiungendo l’inciso “secondo i criteri stabiliti dalla legge”. I suoi detrattori vi leggono la fine di detta obbligatorietà. In realtà, già ora detto obbligo rappresenta una bella chimera. È di tutta evidenza la discrezionalità dei p.m. nello scegliere dove e come indagare (il problema veniva evidenziato addirittura ne ‘79 dal prof. Barile, nel libro dal titolo significativo “I nodi della costituzione”). Come mai alcune questioni procedono immediatamente, precedute spesso da provvedimenti preventivi gravi, come sequestri e arresti, per poi magari finire in un nulla di fatto; ed altre denunce, che richiederebbero approfondimenti, rimangono del tutto inevase? La riforma si propone di limitare la discrezionalità dei p.m., mediante l’indicazione da parte del parlamento di priorità e di criteri chiari e definiti da seguire nella scelta dei procedimenti da avviare con precedenza.
Queste sono le principali novità. È la prima volta che una riforma costituzionale della giustizia arriva in discussione in parlamento. Colpisce che ciò avvenga in una situazione di debolezza parlamentare, con una maggioranza risicata, ed una opposizione alla ricerca di una più definita collocazione identitaria. Nella bicamerale presieduta dal D’Alema nel ’97 già si discusse del tema: addirittura la bozza Boato – come ricorda il prof. Urbani – anticipava sostanzialmente i contenuti dell’odierna riforma. Vero che la commissione non accettò la proposta e si attestò su un documento che parlava di “separazione delle funzioni”, e questa fu la causa del suo naufragio. Ma è evidente che il problema esisteva già in tempi non sospetti.
Verrebbe da dire che non pare il caso di sprecare un’occasione di confronto importante, magari richiamando l’insospettabile Sansonetti, quando nota che “erano tanti anni che in Italia non veniva presentata una riforma di sinistra”, oppure le valutazioni di Mario Cicala, ex presidente dell’Anm, intervistato dal Carlino, che invita i colleghi a ragionare sulla riforma. Ma già circolano pregiudiziali che spostano decisamente l’asse dell’opposizione verso le posizioni più radicali di legalismo e di utilizzo della magistratura come lotta politica.
Eppure, la pregiudiziale a favore della cosiddetta legalità non sembra reggere. Una magistratura maggiormente regolamentata “secondo le modalità previste dalla legge” non è contro la legalità, se è vero che “uno dei cardini delle moderne costituzioni è la sottoposizione del giudice alla legge: è lo stato che pone le regole del vivere civile, rendendo con le proprie leggi autonoma la sfera del diritto da quella della giustizia”. Così commenta Cerqua, attuale presidente della Corte d’Assise di Milano, nella postfazione ad un bel romanzo di Pierre Boulle, “La faccia o il procuratore di Bergerane”, che narra la vicenda di un procuratore che, per salvaguardare, davanti all’opinione pubblica, l’immagine di un “cavaliere mandato per rimediare agli oltraggi e sventare i complotti dei malvagi” non esita a condannare una persona che sapeva essere innocente.
Del tutto fuor di luogo mi pare il ricorso alla piazza, soprattutto se ad arringare è un magistrato, come il p.m. Ingroia. Né può richiamarsi un improbabile principio di salvaguardia integrale della carta costituzionale, come da più parti fatto, chiamando in causa anche la Cei e il documento conclusivo della 46a settimana sociale. In realtà, in tale sede, si è messa in luce l’importanza dell’impianto valoriale della costituzione e della sua “impronta personalistico-comunitaria”, che chiede di “evitare stravolgimenti”, pur ben sottolineandosi il fatto di non poter ritenere la costituzione “qualcosa di intoccabile”. È una riforma inevitabile, assolutamente necessaria, una priorità dell’ordinamento?
Se non altro, è uno dei punti di programma con il quale l’attuale maggioranza si era presentata agli elettori, ricevendo il mandato a governare. Già questo basterebbe ad evitare allarmi di attentato alla democrazia.
Stefano Spinelli – giurista