Il Festival per antonomasia nel corso dei suoi 70 anni ha ospitato molti grandi autori internazionali, con alterne vicissitudini. Tra chi non aveva ben compreso che non si trattava di un concerto, chi ha dettato le sue condizioni, chi si è piegato di malavoglia alle logiche di marketing, sfogliare le pagine della memoria fa riscoprire chicche dimenticate e riflettere sull’eterna domanda: sono solo canzonette?
D’accordo, Sanremo è canzonetta per antonomasia. Una canzonetta che però ha riservato sorprese: ad esempio la presenza di grandi che hanno fatto la storia della musica e non solo. Qualche nome? Louis Armstrong, che ha fatto del suo strumento e della sua voce un simbolo intramontabile, e che ha legato la “negritudine” alla cultura contemporanea, saldandole nella Storia, quella della schiavitù nel sud degli Usa, nella musica, in una letteratura che tra spiritual, gospel, blues e jazz ha fatto nascere vere e proprie poesie. Non è detto che la semplicità e l’immediatezza della denuncia non possano essere anch’esse poesia vera.
È pure vero che la presenza dei grandi ha creato momenti di imbarazzo e, diciamocelo, di autentico panico.
Armstrong, nella sua candida onestà, aveva pensato che quel mega galattico compenso, – 32 milioni di lire del 1968 -, fosse legato ad un concerto vero e proprio e non ad una sola canzone, con il risultato che Pippo Baudo dovette praticamente portarlo via a viva forza dal palcoscenico perché nessuno aveva pensato di informare Zio Satchmo. Lo so che pochi ci crederanno, ma Armstrong partecipava alla gara.
Ma se è per questo pure l’esibizione fuori concorso di Bruce Springsteen del 1996 creò qualche malumore: il cantautore americano volle che la sua apparizione fosse completamente e rigorosamente separata dal resto del festival. Perciò impose le sue condizioni: esibizione rigorosamente dal vivo (molti big dovettero cantare in playback, ivi compresi i Queen di Freddie Mercury, che non la presero molto bene), parole della canzone in sovrapposizione, buio pressoché assoluto, luce assorta di un solo faro e scantonamento al timido tentativo di Baudo di fargli dire qualcosa alla fine dell’esecuzione.
È che Springsteen con Sanremo non c’entrava nulla, e lui lo sapeva bene.
Inoltre quella canzone, “Il fantasma di Tom Joad” non era un motivetto da canticchiare per strada, ma un omaggio al romanzo “Furore” di Steinbeck e una poesia sulla miseria e gli ultimi: “minestra a scaldare sul fuoco sotto il ponte,/la fila per il ricovero che fa il giro dell’isolato:/benvenuti al nuovo ordine mondiale./Famiglie che dormono in macchina nel Sudovest/Né casa né lavoro né sicurezza né pace”. Il lettore avrà capito che per gli organizzatori si trattava di un autogoal in piena regola, anche se poi quell’anno sarebbe stato ricordato – con le opportune omissioni – come l’anno di Springsteen a Sanremo: un apparente bel colpo.
Ma se è per questo anche David Bowie (vi sembrerà impossibile, ma è la pura verità) a Sanremo ci è andato, l’anno dopo, e pure lui ha dovuto sottomettersi alla dura legge del playback, come capitò anche a Sting. Anche uno dei padri putativi della musica con la M maiuscola, Ray Charles è venuto a Sanremo nelle vesti di concorrente, e ci tornerà pure l’anno dopo.
Per fermarci solo agli stranieri, non possiamo dimenticare Madonna, i Depeche Mode, The Smiths, Josè Feliciano (che cantò assieme ai Ricchi e Poveri un tormentone sempreverde come “Che sarà”), Whitney Houston, Elton John e anche Cat Stevens, ora Yusuf Islam, in uno dei suoi classici più amati: “Father and son”. E come non citare gruppi storici del blues britannico come gli Yardbirds, o gli Hollies, o re del rythm’n blues come Wilson Pickett e Stevie Wonder?
Le conclusioni potrebbero essere due, e inconciliabili: Sanremo ha saputo mantenere i contatti con la musica impegnata, oppure Sanremo ha fatto finta di essere impegnata per continuare a fabbricare solo e sempre canzonette. Al lettore l’ardua sentenza.
Marco Testi