L’inattesa distanza interpersonale determinata dall’emergenza che stiamo vivendo interroga le nostre comunità e anche le guide pastorali. Essere Chiesa al tempo dell’emergenza sanitaria, ecco la sfida e il problema.
La situazione è inedita e non trova paragoni con altre esperienze del passato. In tempo di crisi, almeno nel recente passato, la Chiesa non ha smesso di radunarsi o incontrarsi, anche durante la guerra. Questa crisi determina l’isolamento e il nascondimento. Impedisce ciò che è costitutivo della comunità: l’assemblea eucaristica nel giorno del Signore! Mancano i volti cioè le persone con le proprie gioie e dolori. La Chiesa è nella misura in cui, come Gesù, si fa compagna nel cammino concreto e lì narra le meraviglie dell’Amore che sostiene e salva (cfr. Lc 24,13-35: i discepoli di Emmaus).
Come un viaggiatore che esplora luoghi sconosciuti, metto ordine nei miei appunti e provo a comunicare immagini, intuizioni e riflessioni, prima che si ritorni alla corsa di un tempo.
La prima immagine di questo viaggio, cui non mi ero prenotato, è la chiesa deserta della Domenica, neanche quella piccola percentuale (10%) che ancora preferisce l’incontro con il Signore rispetto alla “piazza” del centro…commerciale. Vuoto e domanda: che fare? Non è però la domanda giusta perché non si tratta del “che fare” ma del “come essere”.
Ecco, la chiesa deserta rimanda all’essere prima che al fare il pastore! Questa crisi può diventare un’opportunità (kairòs dal greco che significa momento opportuno). La nostra pastorale non è forse sbilanciata su un certo attivismo che imita l’efficientismo mondano e dimentica che “Se il Signore non costruisce la casa, invano faticano i costruttori”? (Sal 126). Ed io come pastore non sono inviato a guidare con la brillantezza e originalità delle “mie” iniziative, ma ad aiutare il Signore a trovare cuori aperti al Suo amore. Il silenzio esteriore (assenza di attività, impossibilità d’incontro…) mi fa riscoprire la povertà che deve sorreggere e guidare il mio ministero di pastore: servo inutile! (Cfr. Lc 17,10). Questa povertà è il luogo dell’eccedenza dell’Amore che non guarda all’aspetto e non si manifesta sempre per le strade che immaginiamo o abbiamo disegnato.
Pastore nel tempo dell’esilio, quando il ricordo della vita comunitaria e forse le occasioni sprecate o disattese tornano alla mente e come gli esuli, lontano da Gerusalemme, si desidera di nuovo che le lacrime versate sui fiumi di Babilonia diventino canti di gioia per il ritorno alla casa del Signore. Così oggi avverto anche la mia comunità quando al mattino stabilisco come muovermi nelle “visite” telefoniche o tramite i social per stare vicino alla comunità, come un padre che non riesce a stare lontano dai propri figli. Cos’è infatti il presbitero senza una comunità? Ogni giorno in tanti ripetono: quando torneremo a incontrarci, a pregare, a sentire il Signore nella presenza reciproca dell’amore fraterno e visibile?
Forse questa crisi è anche purificazione. Nulla sarà più come prima. La distanza sanitaria ci ha restituito, forse, la diffidenza e paura dell’altro che senza accorgerci avevamo alimentato o acriticamente seguito. Non è un caso che nel nostro tempo (e non parlo di questi giorni) è più facile vedere una persona passeggiare in compagnia di un cane che di un proprio simile. Riscopriremo il volto? Ritorneremo a camminare a fianco l’un l’altro?
Anche la fede ne uscirà rinnovata. Rafforzata o indebolita? Non lo so e neanche mi azzardo a prevederlo. Come pellegrino, dentro questo esilio, desidero fissare come un appunto per l’agenda del dopo coronavirus. Abbiamo bisogno di tornare a verificare il senso di un cammino con il nostro popolo recuperando un dialogo franco e sincero cui – a volte – siamo sfuggiti. Uno dei punti di forza del nostro cammino è senza dubbio la religiosità popolare. Ed è qui, a mio parere, che da alcuni anni non abbiamo voluto o saputo leggere un cambiamento di prospettiva silenzioso quanto insidioso. Con un’immagine, certo forte, mi pare che essa, la religiosità popolare, è ormai un contenitore (le forme esteriori sono rimaste quelle tradizionali) senza contenuto (manca il sapore evangelico). Chiese vuote ed eventi religiosi con numeri elevati, ma che non sono più abitati dal soffio della Presenza e obbediscono a rituali che non la ricordano più perché il cuore delle persone è altrove e a noi questo fa fatica riconoscerlo.
Quando l’emergenza lascerà il posto alla vita e insieme dobbiamo impegnarci a ricostruire fiducia e impegno, noi come Chiesa dobbiamo riprendere in mano l’Agenda evangelica e fissare nuove priorità, perché questo popolo oltre al pane di ogni giorno ha bisogno di riappropriarsi della Parola che illumina e dà sapore anche ai giorni più duri e difficili.
Serve allora recuperare la dimensione profetica per stare dentro la storia senza lasciarsi sommergere dalla paura (che in questo momento giustamente tocca tutti) né da letture catastrofiche ipotizzando ancora un Dio (che non è il Padre che Gesù ci ha donato) assetato di vendetta e castigo. La profezia è invece vivere nella propria carne le ansie e le speranze, le cadute e il desiderio di conversione e della ricerca di Dio nelle pieghe e nelle piaghe del percorso vivo del popolo e lì accogliere e intravedere il disegno salvifico. La Pasqua di Gesù è il sigillo di vita che non abbandona la piccola barca della Chiesa e dell’umanità in balia delle onde alte della tempesta.
Don Sebastiano Raciti