È molto difficile ricordare una persona appena scomparsa rifuggendo ogni retorica, tanto più se si chiama Franco Battiato e la sua morte investe emotivamente quasi tutti. Poche altre figure pubbliche hanno saputo entrare nella nostra vita privata senza essere invadenti. Anzi, mostrandoci con il loro personale esempio come si possano del tutto separare le due sfere: essere una star internazionale e rifiutarne gli obblighi, tributi compresi. Ritirarsi a vita privata nel solco di tanti altri vecchi maestri, ma sempre più isolati da un mondo malato di egolatria, che non comprende più il senso di tali scelte.
Battiato / Chiamatemi Franco, e sarò franco
Molti di noi hanno avuto la fortuna di un personale incontro con Franco, concerti a parte. Per chi come me è nato tardi, quando ormai la sua fama era esplosa da anni, l’incontro non poteva essere troppo ravvicinato. Era il 6 novembre 2012, e al Palazzo Platamone di Catania il neoeletto presidente siciliano Crocetta annunciava in pompa magna l’ingresso del cantautore nella sua giunta regionale. Ma come, qualcuno si chiedeva sbigottito o indignato, quoque tu? Dopo aver inveito contro i direttori artistici e gli addetti alla cultura?
Franco Battiato non aveva mai preteso di essere coerente
Pur mosso da una rettitudine senza pari. Né di dar seguito ai suoi brani (“davvero credete che io preferisca l’insalata a Beethoven e Sinatra?”). E poi, che la sua parentesi politica non avrebbe funzionato si sentiva già nell’aria, in quella sala affollata di giornalisti e curiosi. “Assessore mi offende. Chiamami Franco, e sarò franco”: con queste laconiche parole, che non dimenticherò più per la loro semplicità (anzi, “Franchezza”), Franco congedava chi già cercava di dargli titoli, etichettarlo, incastrarlo.
L’esperienza politica sarebbe durata infatti pochissimo, e proprio per la sua Franchezza ostinata: “Queste troie che si trovano in Parlamento farebbero qualsiasi cosa, dovrebbero aprire un casino”. Esternazione che gli fece perdere l’assessorato ma riguadagnare libertà. Come il suo amico Lucio Dalla, con cui condivideva il ritiro etneo, non aveva mai provato ad autocensurarsi. E come lui, ci ha lasciati prima che la schiettezza gli costasse una vera gogna pubblica e la carriera. Quella musicale, stavolta.
Franco Battiato e quei “buffoni al potere”
“Rincoglioniti, maiali, perfetti e inutili buffoni, gente infame che non sa cos’è il pudore”: Franco non era molto tenero coi palazzi del potere e certi loro inquilini, che oggi invece si affrettano a omaggiarlo in cerca di consensi (e in qualche caso della decenza perduta). Certo, i mantra del cordoglio istituzionale sono puntuali e inevitabili, Franco lo sapeva. Ma definirlo “non schierato” potrebbe farlo rivoltare ancor prima di entrare nella sua tomba. Nel ’92 fece scalpore la sua scelta di tenere un concerto in quell’Iraq appena piegato dalla Guerra del Golfo. “Chi te lo fa fare?” gli dicevano perplessi quelli navigati. E in effetti, cantare nella Baghdad degli sconfitti della storia (quella storia che si credeva finita, con l’avanzata tronfia dell’Occidente post Guerra fredda) non avrebbe pagato.
Specie col rischio della presenza in sala di Saddam Hussein e del suo screditato regime. Ma per Franco era una questione di dignità. Quella perduta da chi, attraverso indecenti sanzioni, pagava il prezzo di responsabilità altrui. L’evento era stato organizzato a sostegno dell’Unicef e dunque dei bambini maggiormente colpiti dalle conseguenze del conflitto – le sanzioni avevano bandito persino le matite, la cui grafite avrebbe potuto essere usata per fabbricare armi chimiche, come racconta Alberto Negri. E poi in ogni caso era “giusto dare a tutti una possibilità di redenzione, agli assassini di diventare santi”. Parole in un deserto, ancora più arido di quello iracheno.
Battiato, la musica e il mondo
All’epoca io ero un poco più giovane ma immensamente più fortunato di quei bambini. Il mio primo incontro musicale con lui è avvenuto almeno due decenni prima di quello fisico al Palazzo Platamone. Franco, un vicino di casa per tutti noi etnei, suonava già da anni nelle cassette dei miei genitori, e formava già inconsciamente la mia identità culturale e politica, in tanti modi che è impossibile elencare – tantomeno spiegare. Portandomi, tra gli altri luoghi, sulla Prospettiva Nevskij molto prima di quanto avrebbe fatto la letteratura russa e poi i miei stessi passi. E spingendomi alla costante ricerca di un significato più profondo di cose, persone ed eventi. Ma naturalmente non è accaduto solo a me.
Franco è stato la colonna sonora e portante dei siciliani della sua epoca
Di quelli orgogliosi, che lo portano come un trofeo da mostrare in giro. Oggi già premono per intitolargli vie, statue e Palazzi della Cultura dove tutto si fa, tranne appunto la cultura (Franco ne riderebbe). E di quelli disillusi, che magari hanno provato a lottare ma non hanno ancora trovato l’alba dentro l’imbrunire. Anche per loro Franco è stato un modello, un antidoto alla rassegnazione. Ci si può chiudere in sé stessi, ognuno nella propria Milo, disgustati dal mondo che ci circonda. Ma è solo un modo per ricaricarsi e tornare a combattere, anche quando i risultati raggiunti farebbero impallidire Sisifo.
Tutti gli siamo debitori per qualcosa
E anche chi non lo ha mai amato, per gusti musicali o sensibilità politiche, deve riconoscergli di aver interpretato al meglio se stesso, con un’integrità ormai rara. Franco ha portato la Sicilia nel mondo e il mondo in Sicilia, a partire dai colleghi, nella piccola Milo che tanto gli deve. Alle pendici di un’Etna che la notte scorsa si è prodigata in un tributo sommesso, lontano dai concerti degli ultimi mesi. Schiva proprio come lo è stato lui.