Sinodo / La parola è la testimonianza di chi crede

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Nel lontano 1928, Thomas Eliot, con grande intuizione e in anticipo sui tempi, scriveva: “Quando un’epoca possiede una pratica e una fede religiosa stabile, il dramma può e dovrebbe tendere verso il realismo … Più fluide e più caotiche sono le concezioni etiche e religiose e più il dramma deve tendere nella direzione della liturgia…”.

Non si può negare che le concezioni etiche e religiose di oggi non siano fluide e caotiche, perché, oramai, questa percezione è una esperienza di tutti: dal professore al fruttivendolo, da chi sta nei piani alti della società all’uomo della strada, da chi ancora frequenta le chiese a chi, da anni, le ha completamente abbandonate.

Il sociologo Zygmunt Bauman ha teorizzato il vivere nel nostro mondo come l’abitare in una società sempre più liquida, priva di punti di riferimento, fragile e da cui emerge un individualismo sfrenato. Nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi.

Zygmunt Bauman
Il sociologo Zygmunt Bauman

La parola contro il dramma della solitudine

Si fa spazio al dramma della solitudine, ci si sente soli pur abitando in una grande e popolosa metropoli. La città, come dice lo stesso Bauman, è un “deserto sovrappopolato”. Ossimoro che, come uno scioglilingua, descrive i repentini cambiamenti epocali che avvengono sotto i nostri occhi, ormai assuefatti e delusi.

Come il “Cavaliere Inesistente” di Calvino, tantissimi rischiano di stare in piedi solo perché sorretti dai fili della causa che avevano sposato tanto tempo fa, ma che, adesso, risentono di tutto il peso e la fragilità.

Le crisi delle nostre comunità non provengono principalmente da una società civile molto cambiata e sempre più ostile al Cristianesimo. Ma, al contrario, da un Cristianesimo sempre più esangue, poco credibile, che si perde in una aristocratica coltivazione dello spirito, compiaciuta di sé, allergica alle certezze eterne e agli impegni derivanti dall’essere anche cittadini sovrani. Con una reiterazione di una religione indurita nelle sue irrigidite abitudini, quasi incapace di godere della luce che è stata donata.

I semplici e i non praticanti pastori, secondo l’evangelista Luca “se ne tornarono, glorificando e lodando Dio, per tutto quello che avevano udito e visto”.
Sorpresa delle sorprese: i nuovi teologi scelti e mandati da Dio per annunziare la nascita del Redentore, gioia di tutto il popolo, non furono quelli che vantavano titoli accademici, che avevano studiato le “cose di Dio” ma quelli meno abilitati a farlo! È scritto proprio così!

La parola è la testimonianza di chi crede

Nella Santa Chiesa di Dio, l’unico titolo per parlare è semplicemente aver creduto, sull’esempio di Paolo che disse ai Corinti “Ho creduto, perciò ho parlato”. Egli che, formato alla scuola di Gamaliele, nelle più rigide norme della legge dei padri, fu prima persecutore, poi, sulla via di Damasco, divenne discepolo. Paolo ci dice una verità profonda: è possibile parlare di Cristo quando davvero abbiamo fatto l’esperienza del Dio vivente.

Linguaglossa -chiesa s.egidio-portale
Linguaglossa-Portale chiesa S. Egidio

Siamo nel tempo del Sinodo, mi auguro che chi parla o parlerà lo faccia o lo farà perché “ha creduto”, altrimenti si rischia solamente una nuova e grande Babele, forse più moderna, ma sempre una Babele!

Mi chiedo: perché siamo diventati afoni? Perché abbiamo rinunciato a raccontare agli altri, come fecero i pastori, quello che andiamo sperimentando? Si può non raccontare quello per cui si vive? È scritto: “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Lc 12,34).
Se vi è una cosa urgentissima da compiere, in questo primo anno di Sinodo, è quello di mettere insieme eventi e parole, tesoro – cuore – parola.

Si può anche decidere di non parlare più, per un voto o una scelta di vita. Ma proprio costoro saranno coloro che, con il silenzio, sapranno rompere la nostra sordità. Chi sceglie infatti il silenzio, non è mai un essere muto, lo fa unicamente perché è diventato una “voce”. Chi non crede, anche officiando nel Tempio, nell’ora dell’incenso, come Zaccaria, può diventare muto, come lo diventò lui, che apparteneva alla classe sacerdotale.

Rompere il silenzio con la parola

Non ci resta che svegliarci quindi! Oppure trarne le conseguenze, fare come quelli che, come ci racconta Giovanni al capitolo sesto, dopo il discorso di Gesù a Cafarnao, si tirarono indietro e non andarono più con Lui.

Ma sono fiducioso perché ci sarà sempre nella Chiesa un Pietro che avrà la forza e l’ardire di dire: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69).

Negli anni scorsi si è parlato nella Chiesa della separazione tra vita e Vangelo, come del grande e vero scandalo che ha depotenziato, inevitabilmente, la Chiesa stessa, la comunità cristiana, sparsa nel mondo. Nulla di più vero! Il mondo, disse il grande Paolo VI, ha bisogno più di testimoni che di maestri. E tutti noi ci dobbiamo incamminare lungo questa strada e far parte della cerchia dei testimoni! Bene. Ma c’è un altro divorzio più grande e allarmante: la separazione tra liturgia e vita, tra esperienza eucaristica e vita sociale.

L’urgenza della parola

Nel prossimo intervento, partendo dall’intuizione di Thomas Eliot, vorrò dire la mia e avanzare qualche proposta a tal proposito!
Tengo comunque a precisare che, se ultimamente sto parlando, è perché sento fortemente la necessità e l’urgenza di farlo, fossi solo una “vox clamantis in deserto”.

Sono nessuno! Tu chi sei?
Sei nessuno – anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Ne parlerebbero in giro – lo sai!
Che brutto – essere qualcuno!
Esposto – come una rana –
che gracida il tuo nome – per tutto giugno –
ad un plaudente pantano.

(Emily Dickinson)

don Orazio Barbarino
Arciprete di Linguaglossa