Anche l’“Economist” afferma che “il Nord va avanti zoppicando, ma il Sud è inanimato”. Per il giornale inglese, che ha intervistato Gianni Toniolo, uno storico dell’Economia della Luiss, “Le differenze regionali sono comuni in molti paesi, ma il caso italiano è particolare a causa della sua longevità. Negli anni ’90, il gap tra l’Est e l’Ovest della Germania era molto più ampio di quello fra il Nord e il Sud dell’Italia, ma ora è minore. Se l’economia italiana vuole crescere a ritmi vicini a quelli della locomotiva tedesca, dovrà trovare il modo di ridurre le sue divisioni interne”.
Un “filo da tirare” rispetto a questa situazione complessiva del Paese, che produce – se va bene – una crescita dello “zero e qualcosa”, potrebbe essere quello indicato dall’Istat nel suo rapporto annuale. Viene individuata un’area molto vasta – che aggrega 93 sistemi per un totale di 990 comuni con una base demografica di 6,8 milioni di residenti, dispersa in piccoli centri rurali o in fasce litoranee. Ne fanno parte quasi tutti i sistemi locali della Sardegna, il Salento, le località marine delle due coste della provincia di Catanzaro e della Sicilia, oltre che alcuni capoluoghi del Mezzogiorno che hanno tradizione storico-culturale (Avellino, Benevento, Matera, Cosenza e Ragusa). Sono inseriti in questo gruppo anche i sistemi siciliani dell’entroterra etneo, quelli pugliesi della Capitanata e quelli della Calabria ionica – definita l’”Altro Sud”, dove è più bassa la disoccupazione femminile è più elevata la quota di imprenditori. “Sono aree – dice l’Istat – non compromesse da eccessiva edificazione, di elevato pregio naturalistico, ricche in termini di patrimonio storico-culturale”, che meriterebbero investimenti, con l’obiettivo di valorizzare il capitale umano.
Queste aree presentano caratteristiche opposte a quelle proprie del disagio (l’area napoletana e quelle urbana di Palermo, i sistemi locali urbani litoranei a nord di Bari) associato a connotazioni socio-economiche critiche, in particolare per quanto riguarda gli indicatori del livello di istruzione della popolazione e del mercato del lavoro. Si tratta di oltre 4,8 milioni di abitanti, con un record di densità pari in media a 1240 persone per chilometro quadrato . Gli altri centri urbani meridionali, compresi quelli di Caserta, Salerno, Taranto, Brindisi, Messina, Catania – per un totale di 4,7 milioni di abitanti – presentano situazioni critiche meno marcate, ma difficili. Il mercato del lavoro fa registrare con tassi di occupazione inferiori alla media e tassi di disoccupazione e precarietà superiori, soprattutto per la componente femminile. “Anche queste città” – dice l’Istat – come quelle dei ‘territori del disagio’, appaiono statiche e incapaci di gestire le rendite di posizione maturate in passato”.
Al fine di far maturare e far crescere una nuova consapevolezza meridionale in grado di puntare allo sviluppo, è possibile considerare come punto di partenza l’“altro Sud”? Non è cosa semplice – nel contesto storico e politico-economico attuale – anche solo pensare di valorizzare territori attraverso interventi diversi da quelli da destinare ad altri meno dinamici e meno ricchi di valori. Altre strade, devono essere quindi trovate – come, ad esempio, interventi di carattere straordinario rivolti all’intero Mezzogiorno sulla disoccupazione giovanile e sulla dispersione scolastica – per consentire che quel “Sud che spera”, come lo chiama l’Istat, continui a poter sperare.
Roberto Rea