A mezzogiorno / Quali politiche sociali? Intervenire sui disagi delle famiglie per salvare l’intero Paese

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È stato il sociologo Luca Ricolfi a coniare per la prima volta l’espressione “Terza Società”, in un editoriale sul “Sole 24 Ore” dello scorso 22 marzo, richiamandosi all’assetto della società italiana così come era stato descritto da Alberto Asor Rosa nel 1977. Mentre allora convivevano due società – quella dei produttori e quella degli esclusi – ora, a distanza di 40 anni, a parere di Ricolfi, si può individuare una politiche sociali“Prima Società” o “società delle garanzie, fatta di dipendenti pubblici inamovibili e di occupati nelle grandi fabbriche, tutelati dai sindacati e dagli ammortizzatori sociali”; una “Seconda Società”, o “società del rischio, fatta di partite Iva, artigiani, piccoli imprenditori e loro dipendenti più o meno precari, accomunati dalla esposizione alle turbolenze e ai capricci del mercato”. Infine, una “Terza Società” o “società degli esclusi, fatta di lavoratori in nero (spesso immigrati), disoccupati che cercano attivamente un’occupazione, lavoratori scoraggiati che il lavoro non lo cerano solo perché hanno perso la speranza di trovarlo”. Ricolfi sottolineava che la grande novità è costituita dal fatto che “nel corso del 2014, le dimensioni della Terza Società sono per la prima volta nella storia d’Italia divenute comparabili a quelle delle altre due: 10 milioni di persone, più o meno quante ne contano la Prima e la Seconda Società”. Un nuovo assetto sociale che ha avuto i suoi prodromi negli anni immediatamente precedenti alla grande crisi 2007-2014 e che ha portato l’Italia ad occupare la terz’ultima posizione tra i 34 Paesi dell’Ocse, prima della Spagna e della Grecia.

I 10 milioni di persone – in maggioranza giovani e donne – rappresentano il 29,7% delle forze di lavoro e per oltre il 50% vivono nel Mezzogiorno. È questo il dato più rilevante della ricerca della Fondazione David Hume sulla diseguaglianza sociale, nella parte che riguarda il nostro Paese. Tenendo presente il cosiddetto “coefficiente di Gini” – l’indice di Misura globale della diseguaglianza nella distribuzione, tra le n unità di una collettività, di un carattere trasferibile (per es. il reddito) – si sottolinea la frattura profonda fra Centro-Nord e Sud, rispetto ai parametri del Pil pro-capite e dei consumi. “Nel Mezzogiorno si registra un apprezzabile aumento della diseguaglianza, con una maggiorazione rispetto al Centro Nord compresa negli ultimi vent’anni fra 2 e 5 punti”, ha spiegato Luigi Campiglio, economista dell’Università Cattolica, che ha aggiunto: “Peraltro, la differenza in punti percentuali tra il tasso di povertà relativa familiare del Sud rispetto al Centro Nord è salita dal 16% del 2003 al 19,55% del 2013”. “Ad oggi – scrive la Fondazione David Hume – pare che le due zone d’Italia stiano cominciando nuovamente ad allontanarsi”.

Permane, in questo contesto – e sotto certi aspetti, si consolida – un elemento strutturale della società italiana: il trasferimento di risorse pubbliche, che a parere della quasi totalità degli economisti, non è mai stato un elemento capace di far decrescere le distanze tra territori e territori, tra persone e persone, tra famiglie e famiglie. Ed è vero – nel senso che è storicamente provato – che da un lato non si è mai fatta una riflessione seria sull’efficacia delle politiche sociali, dall’altro si è assistito ad un impoverimento costante delle famiglie. Basti pensare che nel 2002, la percentuale di famiglie che usavano i risparmi o contraevano i debiti era pari al 5%, nel 2013 ha toccato il 33,5%. La diminuzione di questo dato – ora è al 29,7% – ha coinciso, non a caso, con la lievissima ripresa economica che si sta registrando. Intervenire sui disagi delle famiglie, soprattutto nel Mezzogiorno, è condizione ineludibile per tentare di salvare l’intero Paese.

Roberto Rea

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