Le popolazioni locali sono vittima di una devastante crisi ambientale – dal 1960 ad oggi la superficie del lago si è ridotta del 90% – e degli attacchi di Boko Haram. La comunità internazionale prova ad intervenire promettendo oltre 2 miliardi di dollari di investimenti, ma forse solo un “fantascientifico” progetto idrico potrebbe davvero cambiare le cose
“Le promesse di finanziamento, per quanto importanti, non bastano. Servono stanziamenti concreti e, soprattutto, interventi che coinvolgano le comunità locali. In gioco c’è il futuro di milioni di persone la cui vita quotidiana è legata a doppio filo al destino del Lago Ciad”. Ha le idee chiare Edouard Kaldapa, direttore della Caritas di Marua-Mokolo, nella Regione dell’Estremo Nord, una “fettina” di Camerun che si insinua tra i confini di Nigeria e Ciad fino alle sponde del Lago Ciad.
Lo incontriamo a Como, nella sede del Centro missionario diocesano, dove ha fatto tappa nel lungo viaggio che lo ha riportato in Africa dopo aver partecipato alla Conferenza di Alto Livello sulla Regione del Lago Ciad che si è tenuta a Berlino il 3 e 4 settembre scorso. Insieme a lui – invitato da Caritas Germania – i delegati di 24 Ong internazionali, i rappresentanti delle Nazioni unite, della Banca mondiale, della Banca di sviluppo africana e di altri 27 Stati – compresi i quattro bagnati dal lago (Camerun, Ciad, Niger e Nigeria) – chiamati a confrontarsi su possibili soluzioni per arrestarne il declino.
Secondo i dati dell’Onu tra il 1962 e il 2014 il livello delle acque del Lago si è abbassato di quattro metri, perdendo il 90% della propria superficie. Una vera e propria crisi ambientale causata da un mix di elementi fatto di cambiamenti climatici, con il calo delle precipitazioni, crescita demografica e sfruttamento non sostenibile delle acque.
“Attualmente sono 19 milioni le persone colpite dalla crisi – spiega Kaldapa – ma se la tendenza dovesse continuare sarebbe una tragedia: il lago rappresenta l’ultima barriera contro l’avanzata del deserto e una fonte di vita per 40 milioni di persone”. La conferenza è terminata con l’impegno a investire 2,17 miliardi di dollari per migliorare la situazione delle comunità locali; l’Italia contribuirà nel 2019 con 15 milioni di euro.
“I fondi promessi (ma non ancora stanziati ndr) dai donatori, sia per progetti di assistenza umanitaria che di sviluppo, sono una cifra importante, ma altrettanto importante sarà capire come verranno spesi. Troppo spesso abbiamo visto fondi perdersi in elevati costi di gestione o in interventi non efficaci”, precisa il direttore della Caritas. Ma c’è un’ombra, funesta, che rischia di vanificare gli sforzi presenti e futuri: la presenza di Boko Haram e le tensioni sociali crescenti tra tribù di allevatori e agricoltori. “La riduzione delle fonti d’acqua – spiega Kaldapa – sta portando a crescenti dispute e scontri, anche armati, tra gruppi. Una situazione sempre più presente non solo in Nigeria, ma anche in Camerun, Niger e Ciad”.
La minaccia più consistente è rappresentata senza dubbio da Boko Haram la milizia di matrice islamica fondamentalista che, dopo aver iniziato le sue attività nel nord della Nigeria nel 2003, ha esteso i suoi attacchi in tutto il Bacino. Solo nella diocesi di Maroua-Mokolo le violenze hanno provocato negli ultimi anni 150 mila sfollati di cui 95 mila sono profughi in arrivo dalla Nigeria.
“Oggi, – racconta Kaldapa – la situazione, almeno sul versante militare, è migliorata. L’operazione congiunta lanciata nel 2015 dagli eserciti dei quattro Paesi contro il gruppo ha dato buoni risultati. Se in passato Boko Haram aveva l’obiettivo di creare un vero e proprio stato, oggi si limita a colpire con attacchi improvvisi per poi ritirarsi in zone isolate e poco accessibili come le lingue di terra e le isole che sono emerse dal prosciugamento del lago”.
Solo il tempo ci dirà se i fondi promessi e il prosieguo della lotta a Boko Haram porteranno a reali benefici per le popolazioni locali, ma resta un nodo di fondo: per quanto si possa tamponare, il processo di desertificazione appare inarrestabile se guardiamo al calo delle precipitazioni e al crescente sfruttamento delle acque. A meno che, ed è questa un’opzione sul tavolo da almeno quarant’anni, non si decida di intervenire drasticamente “iniettando” nel Lago Ciad nuova linfa sotto forma di acqua proveniente dal bacino del Congo.
Il primo progetto a paventare questa ipotesi risale addirittura agli anni ‘80 e fu presentato da una società italiana del gruppo Iri (Bonifica Spa).
L’idea era quella di trasferire 100 miliardi di m³ d’acqua all’anno dal bacino del Congo a quello del lago Ciad attraverso un’idrovia lunga 2.400 km. Una massa d’acqua enorme che rappresenta, però, solo il 7-8% di quanto il fiume Congo riversa ogni anno nell’Atlantico. Fantascienza? Forse, se non fosse che gli stessi Paesi rivieraschi nel corso dell’ultima riunione della Commissione per il bacino del lago Ciad (Cblc) del febbraio scorso, l’hanno definita l’unica via percorribile per salvare il lago. Restano i costi elevati e le difficoltà infrastrutturali di un’opera di questa portata. Ma, soprattutto, resta il “no” secco del governo di Kinshasa che non sembra disposto a privarsi di una risorsa tanto preziosa quanto l’acqua. Un bene che, in Africa come altrove, acquista sempre più le sembianze di un vero e proprio “oro blu”.
Michele Luppi