Africa / L’altra guerra in Sudan per il petrolio

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Un altro conflitto incombe silenzioso: la guerra in Sudan per il petrolio. È dall’inizio della guerra in Medio Oriente che gli osservatori tengono sott’occhio l’Iran, l’incognita più minacciosa sull’escalation del conflitto. Teheran monitora le ostilità e ha già lanciato più di un monito sulle “linee rosse” varcate da Israele. Paventando un intervento che farebbe precipitare ancora di più lo scontro. Ma gli obiettivi del suo presidente, Ebrahim Raisi, si spingono anche più a ovest della crisi nella Striscia: in Africa subsahariana.

Petrolio, interessi e conflitto 

Malakal è una città settentrionale del Sud Sudan, vicina al confine con il Sudan che da diversi mesi è in preda ad un feroce conflitto dimenticato dal mondo. Solo Papa Francesco non si stanca di ripetere, precisamente anche durante l’Angelus del 12 novembre 2023, che “il Sudan è in preda a una guerra civile che non accenna a spegnersi e che sta provocando numerose vittime, milioni di sfollati nei Paesi limitrofi e una gravissima situazione umanitaria”. Le immagini del grattacielo della Greater Nile Petroleum Oil Company avvolto dalle fiamme e da una densa nuvola di fumo nero ha fatto il giro del web. Ricordando all’Occidente, concentrato sul conflitto in Ucraina, e poi su quella Israelo-Palestinese, che un’altra guerra è tuttora in corso.

Il grattacielo di 18 piani della compagnia petrolifera affacciato sul Nilo era uno dei monumenti più riconoscibili di Khartoum, dove combattimenti e raid aerei proseguono ormai ininterrottamente da sei mesi. A fronteggiarsi sono l’esercito regolare guidato dal presidente del Consiglio sovrano di transizione del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze di sostegno Rapido (RSF) che rispondono all’ex vice di al-Burhan, il generale Mohamad Hamdan Dagalo, noto come Hemedti. Il loro scontro di potere ha ridotto la capitale a un campo di battaglia urbano, con molti quartieri senza acqua corrente né elettricità, mentre le violenze non accennano a stemperarsi. Scontri a fuoco sono stati segnalati anche nella città di El-Obeid, nel Kordofan settentrionale. Il conflitto, ha provocato più di 5 milioni di sfollati interni, e la chiusura dell’80% degli ospedali del paese.

La guerra in Sudan per il petrolio: Combattimenti e vittime 

La violenza si è estesa anche alla regione occidentale del Darfur, dove gli attacchi a sfondo etnico da parte di RSF e delle milizie alleate hanno innescato nuove indagini da parte della Corte penale internazionale su possibili crimini di guerra. La realtà in quest’area è talmente tesa che rischia di destabilizzare anche regioni limitrofe che vivono già in condizioni fragili e precarie. Inoltre tra Sudan e Sud Sudan erano in corso trattative aperte su un territorio conteso, quello di Abyei, che si trova sul confine tra i due Stati ed è ricco di petrolio. L’attuale guerra in Sudan per il petrolio non solo ha congelato i colloqui tra i due Paesi in merito a questa regione, ma ha acuito le tensioni. Come dimostrano i combattimenti del 19 novembre scorso durante i quali sono rimaste uccise 32 persone ad Abyei.

La vicinanza all’Arabia Saudita ha permesso a Karthoum, la capitale, di uscire indenne dalla guerra mondiale al terrorismo lanciata da Washington e Al Bashir si è sdebitato con Riyadh inviando migliaia di soldati delle RSF nella fallimentare campagna contro gli Houti yemeniti nel 2015, pomposamente chiamata “Decisive Storm”. Anche il Sudan ha visto una “primavera araba” di ritorno nel 2018. L’anno successivo Al Bashir viene deposto da un colpo di stato e un governo di transizione si installa e promette la democratizzazione del paese e l’installazione di una guida civile. Dopo pochi mesi, il potere finisce a una diarchia, dove il generale Al-Burhan era di fatto il capo di stato e Hemeti il numero due. I quali hanno gestito il Sudan facendo anche concessioni sia a Washington, aderendo agli Accordi di Abramo e riconoscendo Israele nel 2022 ma allo stesso tempo strizzando l’occhio a Mosca e Pechino.

Guerra Sudan Petrolio

Nel dramma della guerra una voce di speranza

L’area al confine tra Sudan e Sud Sudan è martoriata da conflitto e povertà. La violenza dilaga, con numerose vittime. In questo contesto travagliato c’è chi si impegna per tenere in vita la radio diocesana di Malakal. Riuscire a realizzare questo progetto delle Pontificie opere missionarie (Pom) è un modo per tenere accesa una speranza. La Fondazione Missio, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana che rappresenta le Pom nella Chiesa italiana, si è fatta carico della realizzazione di questo progetto, che consiste nell’acquistare apparecchiature per la radio diocesana Saut al-Mahabba di Malakal. La radio fa parte del network delle radio cattoliche e trasmette nella città di Malakal e nel vicino sito di protezione dei civili delle Nazioni Unite per un totale di circa 70mila potenziali ascoltatori.

La radio è lo strumento di comunicazione più utilizzato nell’area di Malakal dopo i social media, preferiti per lo più dalla popolazione giovane. Attraverso la stazione Fm, anche nelle aree rurali arrivano notizie locali e nazionali, considerato che la radio governativa è spenta dall’inizio della guerra civile. Radio Saut al-Mahabba offre programmi per tutti. Ma la priorità è rivolta agli ascoltatori di fede cristiana. L’obiettivo è la realizzazione di rubriche indirizzate ai giovani. Molto preziose perché assicurano una formazione ai valori umani, uso dei social media e salvaguardia del Creato.

Giuliana Aglio 

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