A volte ai bordi della cronaca c’è una domanda che nasce al termine di manifestazioni, di cortei, di scontri e, purtroppo, di morti che hanno come “teatro” la piazza.
A Roma come a Mosca, ma l’elenco è infinito, questi particolari luoghi della città, dove le luci e le ombre della storia si sono continuamente alternate, hanno visto in questi ultimi giorni il ripetersi di gesti e di parole che hanno fatto nascere preoccupazione e indignazione.
Non è il caso di riprendere quanto accaduto perché l’informazione non ha perso i colpi: tutti sanno tutto in tempo reale. Soprattutto con la mente si tratta di sostare in piazza dopo l’affollamento, dopo il vociare, dopo l’insulto, dopo i colpi di pistola.
Si tratta di sedersi su un gradino o appoggiarsi a un muro e interrogare quel luogo di vita e di relazione.
I pensieri incominciano a correre coinvolgendo la piazza che da sempre assiste alle vicende umane alle quali molte volte dona il proprio nome.
Seduto ai bordi della cronaca, qualcuno improvvisa quasi scherzando una domanda: “Ma tu piazza cosa dici di quel gesto, di quelle parole, di quella folla, di quell’insulto, di quei colpi mortali alle spalle?”.
Quasi un dialogo confidenziale tra l’uomo e il luogo dove le domande e le risposte sono tutte sul filo del silenzio ma non certo del vuoto.
La piazza risponde a modo suo. Nata per esprimere la grandezza di un popolo, costruita con il pensiero prima che con le pietre, partecipa allo scorrere della storia con il passo delle diverse generazioni che l’hanno attraversata e l’attraversano.
Non è silenzio il suo. È un giudizio, senza parole, sulla violenza e sul dialogo, sullo scontro e sull’incontro, sulla volgarità e sulla nobiltà, sulla morte e sulla vita, sull’umanità e sulla disumanità.
Ciò che è accaduto nel suo grembo solo qualche ora prima non la lascia indifferente anche se il suo modo di esprimersi è particolare e per capire il messaggio delle pietre occorre qualcosa di diverso da un normale vocabolario.
C’è un’alleanza, non detta, tra la piazza e il pensiero ed è un’alleanza che chiede all’uomo di riflettere sui fatti accaduti con un supplemento di responsabilità e di speranza. Ferita da gesti e parole la piazza richiama il significato del vivere insieme, dell’essere popolo, del bene comune.
Diventa un richiamo alla civiltà che, rimossa per alcune ore, torna con lo splendore della sua bellezza. Diventa un invito, non moralistico, a pensare al futuro della città, al futuro dell’umanità, al futuro delle nuove generazioni.
Fermarsi e pensare. Un monito che questo luogo di civiltà leva silenziosamente sentendosi espressione della bellezza, della convivialità delle differenze, dell’amore per la città.
Il monito si è alzato forte in questi giorni dalle piazze di Roma, da quelle di Mosca e di innumerevoli città del mondo. Anche le pietre hanno parlato e parlano.
Se occorre prendere atto della volgarità, se è davvero impossibile non indignarsi per le parole e i gesti di disprezzo dell’altro è altrettanto doveroso non rassegnarsi. Occorre tornare, almeno per qualche minuto, nel cuore della piazza per ascoltare un messaggio che non cancella le parole gridate ma suggerisce parole e gesti pensati, parole e gesti di civiltà e di umanità.
Paolo Bustaffa