Anche la morte è entrata nel vortice di una velocità che sta sempre più erodendo il tempo del pensiero.
Le notizie si scavalcano in una impressionante rimozione o riduzione di quanto era accaduto solo qualche ora prima.
Una velocità senza limiti costringe anche le donne, gli uomini, gli strumenti della comunicazione a correre, continuamente correre, forsennatamente correre.
E così la mente e il cuore dell’uomo vengono sottoposti a uno stress mai provato in precedenza.
Le immagini da Dacca, dalla Puglia, da Nizza, dalla Turchia, per citare solo le ultime, si sono inanellate nel filo dell’orrore, del raccapriccio, del dolore, della disperazione.
Si segue tutto con il cuore in gola, con tanti perché che in parte trovano risposta e in parte rimangono sospesi.
L’alta velocità dei fatti e della cronaca impedisce o rende difficile incontrare una risposta.
Manca una sosta in cui poter ritrovare se stessi dopo la bufera che ha sconvolto e piegato.
Così tra le domande più graffianti rimane con insistenza quella sul dolore innocente.
Nei giorni scorsi veniva trasmessa in televisione un’intervista con Umberto Veronesi il quale ribadiva che il dolore innocente era il motivo del suo sentire Dio lontano dall’uomo.
Veronesi, al compiere dei 90 anni d’età, argomentava lasciando intuire più una ricerca in corso che una conclusione definitiva perché davvero sconfinata è la domanda sul dolore innocente attorno al quale si sono scritte pagine di straordinaria intensità.
Lo racchiude, questo dolore, l’immagine del corpo di un bimbo morto e coperto da un telo. Qualcuno ha lasciato accanto un peluche che probabilmente il piccolo teneva in mano.
Diceva un fotoreporter, inviato di guerra, che un’immagine rispettosa e delicata come questa può comunicare più di tante altre la realtà di una strage così come quella di una madre abbracciata alla bara della figlia può ben riassumere una tragedia ferroviaria.
Immagini che rilanciano, con una tenerezza graffiante, la domanda sul dolore innocente.
Veronesi ha la sua risposta condivisa da molti altri: Dio è lontano.
Forse questa risposta va interpretata come una buona provocazione da chi afferma che non è così, che Dio non è lontano, che Dio non è responsabile di tanta sofferenza, che Dio è sotto tutti i teli di Nizza.
Di fronte al dolore innocente, al dolore cosmico di questi giorni, il cristiano non deve forse sentirsi chiamato a trovare parole vere per dire, a se stesso prima che agli altri, le ragioni della speranza che è in lui? Parole che non possono venire da un copia e incolla.
Ci sono parole, o silenzi, che vengono da quel tremore e timore che nasce alla soglia del mistero del dolore innocente, ai piedi di una croce dalla quale il dolore innocente si affaccia sul mondo.
In questa sosta, dove il timore e il tremore non sono emozioni ma sono incontro con il mistero, le parole possono prendere sapore umano e così accompagnare una ricerca, suggerire la direzione per giungere all’incontro con la risposta.
Fermarsi in questo incrocio della storia, dove per molte persone le parole diventano preghiera, aiuta ad alzare lo sguardo e scoprire che la croce non segna la fine del percorso ma apre all’orizzonte del tutto inatteso e sorprendente della gioia.
Libere dal condizionamento dell’alta velocità della cronaca, le parole potranno anche trovare la concretezza delle azioni perché non accada mai più che un bimbo venga ucciso mentre ancora nei suoi occhi spalancati si riflettevano le luci della festa, non accada mai più che un bimbo morto in mare venga portato a riva non dalle mani dell’uomo ma dalla tenerezza delle onde e non avvenga mai più che il futuro condiviso di un ragazzo e di una ragazza si frantumi nello schianto sui binari. Il timore e il tremore di fronte al dolore innocente non sono segni di resa e di rassegnazione.
Paolo Bustaffa