“Disarmali: che sorgano tra di loro dei profeti, dei profeti che a loro gridino la loro indignazione, la loro vergogna di vedere a questo punto sfigurare l’immagine dell’Uomo, l’immagine di Dio. Gridino che agendo così scavano definitivamente a se stessi la tomba”.
È un brano tratto dalla preghiera per la pace nello spirito di Thibirine, il monastero trappista in Algeria dove nel maggio 1996 alcuni terroristi del fanatismo islamico rapirono sette monaci francesi per poi trucidarli .
Di fronte alla atrocità dell’attentato a Parigi e di altri attacchi, compreso quello compiuto nella capitale del Mali, la preghiera, nella sua fragilità, potrebbe apparire del tutto fuori dalla realtà, potrebbe sembrare un susseguirsi di parole a ruota libera, potrebbe sembrare il pensiero di anime belle che si nascondono tra le nuvole.
Chi ha scritto questa preghiera, frère Dominique Motte del convento dei domenicani di Lilla, può sembrare un sognatore, niente di più. Ma non è così.
Il sognatore è chi si chiama fuori dalla realtà ed entra nell’ingenuità e nell’idealismo. Al contrario, chi ha un sogno è colui che immerso nella realtà non intende rimanere prigioniero del buio e crede che la reazione solo armata al male non può essere l’ultima e l’unica risposta. Ma è possibile avere un sogno quando il terrore e la paura dilagano?
È possibile avere un sogno quando la disumanità di pochi appare incontrollabile? Che senso ha scrivere e proporre una preghiera in cui si auspica la nascita di profeti di pace in gruppi che si nutrono solo di odio?
“Disarmali: consentendo a noi, se necessario, visto che è necessario, di prendere tutte le misure necessarie per proteggere con fermezza gli innocenti. Ma senza odio”. Questo altro brano della preghiera dice che il suo autore non è uno sprovveduto. L’appello alla difesa degli inermi e il monito ad agire con determinazione, ma senza spirito di vendetta ne sono una conferma.
Non è facile condividere un itinerario interiore che porta ad auspicare la nascita di profeti pronti ad alzare la loro voce nei gruppi di terroristi perché fermino la loro furia assassina. Eppure questa è la piccola luce che soprattutto la fede cristiana accende, come è accaduto altre volte, nel buio della storia.
Nella “preghiera francese” neppure manca un richiamo alle responsabilità occidentali. “Disarma anche noi – recita il testo – che non ci stanchiamo, che non disperiamo mai di cercare di comprendere, anche se restiamo confusi per l’ampiezza del male in questo mondo”.
Un appello ad andare alle origini del male per evitare gli errori che ne hanno consentito la nascita e crescita. “Disarma loro” e “Disarma noi”: il messaggio di frère Dominique Motte, fatto proprio dai vescovi francesi, è un insistente bussare alla coscienza in un momento in cui è ancora altissimo l’allarme e non c’è molto spazio per un pensiero che vada oltre l’irrinunciabile difesa preventiva di vite umane.
Ci sono però parole che nell’attraversare la tragedia non si cancellano, anzi consentono di pensare a un futuro in cui al fragore delle armi si sostituisca la voce della ragione, all’orrore della disumanità si sostituisca la bellezza dell’umanità. Forse qualcosa sta accadendo se nella città blindata di Bruxelles un giovane islamico si lascia riprendere in primo piano da una tv mentre invita il fratello terrorista a deporre l’odio e le armi. Forse qualcosa sta accadendo se i giovani nelle nostre scuole chiedono di conoscere e di essere aiutati a capire una storia fino a oggi sconosciuta. Forse qualcosa sta accadendo se uomini e donne di fede islamica scendono nelle piazze per opporsi al tradimento della loro religione. Si potrà dire che è ancora troppo poco rispetto a gesti e slogan di segno contrario ostentati in luoghi pubblici reali e virtuali. Ma è proprio la storia a dire che piccoli segni, apparentemente deboli e fragili come la preghiera di frère Dominique Motte, non portano l’uomo fuori dalla realtà ma gli indicano il sentiero per uscire dal buio.
Paolo Bustaffa