“…ora la capitale – a meno di due mesi dall’inizio del giubileo – ha la certezza solo delle proprie macerie”. C’è amarezza nel commento sulle vicende romane apparso su L’Osservatore Romano del 9 ottobre. È però bene leggere anche l’ultima frase: “Ma, sopra a tutto, c’è una sola grande certezza: Roma davvero non merita tutto questo”. Rivelano, le parole del quotidiano della Santa Sede, un amore grande alla città di Roma e, allargando il respiro, rivelano lo stesso amore a tutte le altre città del mondo, a tutti i luoghi abitati da un’umanità spesso tradita e ferita mentre attendeva segni e gesti di speranza.
Per comprendere il messaggio del giornale vaticano occorre conoscere l’anima di Roma, come peraltro occorre conoscere l’anima di ogni città. Senza ignorarli è necessario andare oltre i palazzi e spingersi fino alle case della gente, nelle periferie, nelle borgate.
Bisogna consumare le scarpe lungo le strade, le piazze, i sagrati delle chiese, i campi degli oratori, le stanze delle case famiglia e dei luoghi di accoglienza, le scale degli immensi serpenti di cemento dove si incontrano famiglie e persone dai mille volti diversi.
È una non sempre facile convivenza di differenze che ai narratori mediatici delle vicende politiche e istituzionali appare non notiziabile, mentre agli osservatori che consumano anche gli occhi sulla realtà sociale si propone come il percorso visibile di un pensiero e di una scelta che nascono da una convinzione: “tutto ciò che è umano ci sta a cuore”.
Per questo il commento del quotidiano della Santa Sede diventa la voce amareggiata e sdegnata, ma non rassegnata e neppure smarrita, di quanti si ribellano alla immagine di una Roma ridotta a detriti e rottami.
Tra i “ribelli per amore della città” c’è la comunità cristiana con la sua fragilità e con la sua forza.
Cosa può fare questa presenza umile in una città così grande? Che senso hanno quei campanili tra tanto asfalto orizzontale e tanto cemento verticale? Cosa pensa di essere e di fare quella gente che varca, sia in entrata che in uscita, la porta di una chiesa? Ai bordi della cronaca molte domande nascono mentre in elettronico e sul cartaceo continuano a scorrere le immagini delle macerie.
Ma può essere uno scorrere senza fine? No, non si può rubare l’anima a una città, riducendola in macerie, fino a quando ci sarà quella presenza fragile e forte quale è la comunità cristiana con i suoi laici, le sue famiglie, i suoi sacerdoti, le sue espressioni di speranza e di carità.
La fatica per prevenire e rimuovere le macerie non manca e c’è quindi il rischio della stanchezza. Viene in soccorso Paolo VI che incontrando il 30 dicembre 1964 la giunta capitolina disse: “Abbiate animo, Signori. Roma non è mai stanca. Roma non è mai vecchia. Roma se cosciente e fedele al suo alto e misterioso destino, Voi lo sapete, è eterna”.
Probabilmente non tutti quei “Signori” lo compresero ma per molta gente onesta e laboriosa il messaggio di papa Montini fu, e rimane ancora oggi, uno stimolo e un incoraggiamento.
La comunità cristiana, che ha il volto della gente, per prima si sente chiamata a vincere la stanchezza. Di fronte alle macerie avverte l’urgenza e l’importanza di riscoprire e di educare all’impegno politico quale forma alta ed esigente di carità. È una scelta più che mai difficile ma è un passo irrinunciabile, incoraggiato da papa Francesco, perché l’anima di una città non rimanga intrappolata sotto le macerie ma prenda quota, sospinta dalla consapevolezza che “tutto ciò che è umano ci sta a cuore”.
Paolo Bustaffa